mercoledì 5 maggio 2010

Fryderyk Chopin,
Ballate, Fantasia op.49, Barcarola op.60
214/53

Oggi ho un po' di tempo libero e mi dedico ad una puntata di immortali cumulativa, tutta chopiniana. L'occasione è ottima per provare due regali: lo stereo nuovo e il recentissimo cofanetto con l'opera omnia chopiniana di Deutsche Grammophone, entrambi provenienti dalla stessa persona...

Quanto la musica di Chopin sia calata nella sua epoca è evidente anche all'ascoltatore più sprovveduto o distratto: cominciano ad apparire crinoline e divani di velluto alle prime note e, mano a mano che la composizione si svolge, di volta in volta appariranno agli occhi della nostra mente teatri con sipari di broccato, ventagli e decolleté ingioiellati, bastoni da passeggio e guanti bianchi che sistemano pince-nez. Eppure... Eppure Chopin, da vero classico qual è, non ci stanca mai, continua a dirci qualcosa di estremamente attuale, va al cuore dei nostri pensieri e sentimenti e prepotentemente si impone all'ascolto. Con un virtuosismo che non è esibizione, con una magnificenza di suono che non è compiacimento, con un sistema di temi e motivi che non è mai retorica.

E allora ascoltiamole queste Ballate e questa Fantasia, dalle mani e dalla mente di Zimerman, mentre per la Barcarola sarà Pollini a condurre il gioco.

lunedì 3 maggio 2010

Ludwig van Beethoven,
Concerto n.5 «Imperatore»
214/52

Accendendo la radio, come mi accade abbastanza spesso mentre preparo la cena, Radio 3 mi ha richiamato ai miei doveri di blogger, a dire il vero parecchio trascurati negli ultimi tempi. La Filarmonica della Scala in diretta da Milano, Robert Levin al pianoforte e sul podio Semyon Bychkov hanno appena finito di eseguire l'Imperatore di Beethoven. Guido Zaccagnini dialoga con l'inviata che commenta dalla Scala, Gaia Varon, e amabilmente leggono gli sms degli ascoltatori. Non si è fatta parola dello sciopero che ha coinvolto tutte le maggiori istituzioni italiane, all'indomani della firma di Napolitano al decreto che taglia definitivamente e ulteriormente i già esigui contributi alla vita musicale del nostro paese.

Levin si produce nel suo bis (che sarà mai? sembra un brano dello stesso periodo del concerto ma non saprei dire cosa...ecco, dicono che è l'ultima Bagattella, n.7 op.33) e il pubblico applaude, ovviamente. Ogni tanto le frequenze di Radio 3 - una radio nazionale, per cui tutti noi dovremmo pagare il canone - vengono invase da quelle di una radio locale, dalla quale escono trucidi commenti calcistici con forte accento romanesco. Mi è sempre sembrata estremamente metaforica questa triste circostanza, che subisco ormai da parecchi mesi: la cultura spenta dal calcio, che invade e pervade ogni cosa. Vabbè. O tempora, o mores...

Mi convinco sempre di più che la sordità di Beethoven sia stata la terribile "marcia in più" che gli ha permesso di scrivere brani di musica assolutamente visionari e rivoluzionari. Dice Pestelli che Beethoven ha rappresentato attraverso i suoni le incredibili rivoluzioni storiche che ha vissuto: illuminismo, rivoluzione francese, impero napoleonico, restaurazione, rivoluzione industriale, ascesa della borghesia. Non si può che concordare. Mi piace ricordare anche questa immagine del nostro critico, relativa al rapporto Beethoven/pianoforte: "il Quinto concerto contempla tutto da un punto di vista superiore, dove i soggetti e i drammi, anche veementi, vengono storicizzati e relativizzati dalla presenza del pianoforte; si direbbe che Beethoven sollevi grandi masse sonore solo per intimizzarle e familiarizzarle; il pianoforte è Beethoven come individuo, ancora capace di confrontarsi con la massa senza soccomberle."

domenica 18 aprile 2010

Franz Liszt,
Consolations 214/51

Proseguiamo con un altro ascolto lisztiano. Non si tratta qui dei brani funambolici, da virtuoso quasi disumano cui Liszt ci ha abituato ma dei brani, meno frequenti nel suo catalogo (e proprio per questo forse da ascoltare con più attenzione!), che esplorano i sentimenti più intimi e nascosti dell'animo umano, quelli che più piaceranno ai futuri Debussy e Ravel.

Pestelli ha bellissime parole per Liszt, parole d'affetto e riconoscenza per questa figura di musicista e di uomo grande: "non lasciò nessuno senza aiuto, sostegno o incitamento (Wagner stesso riconobbe il debito)". Anche se gli amici musicisti da lui beneficati, Wagner appunto e Berlioz come pure Schumann, non furono altrettanto attenti estimatori della sua musica. Ed ebbero torto. Forse perchè, come dice anche Pestelli, egli più che un romantico fu "un decadente anzi tempo" e dunque gli altri romantici non lo capirono.

Ognuno dei suoi brani rivela una profonda conoscenza letteraria ed è intessuto di riferimenti a letture di classici e di contemporanei, con una puntualità e un'intelligenza rare. Comprese queste Consolations, che traggono origine dalle omonime poesie di Saint-Beuve, pubblicate nel 1830, circa 20 anni prima.

martedì 13 aprile 2010

Franz Liszt,
Sonata in si min. 214/50

Per il cinquantesimo capolavoro (sono in super-ritardo sulla tabella di marcia, ma confido in recuperi futuri) mi sono concessa un brano che conosco bene e che fa le scintille anche se lo ascolti distrattamente. La sonata in si minore di Liszt è uno dei capolavori del pianismo di tutti i tempi e ti prende alla gola mettendoti all'angolo senza scampo, specialmente se sei di umore sentimentale.

Nell'amarcord della mia memoria è legata ad un goffo ma geniale pianista, collega del primo anno di università; me la fece conoscere con una mitica audiocassetta (ma ve le ricordate le cassette doppiate nel registratore? che tempi...), passatami furtivamente durante una lezione di Storia della Musica. Sul mio registratore portatile - che effettivamente trasportavo in continuazione dalla mia camera alla cucina comune dell'appartamento che condividevo con altre due studentesse - quel nastro si deve essere letteralmente consumato rinnovando ogni volta il suo miracolo. L'incisione che sto ascoltando adesso è di Claudio Arrau (ho derogato dal Pollini consigliato da Pestelli, unicamente perchè la sua versione l'ho ascoltata dal vivo, in un mitico concerto alla Chigiana, tutto dedicato a sonate titaniche) e forse anche allora era quella. Chissà...

Chissà perchè ma in quel periodo mi identificai tanto in questa sonata: sarà stata l'età, la pensosità di certi momenti alternati alla tragica passionalità di altri, l'energia straripante arrestata a tratti in radure di tranquillità. Ad ogni modo penso sia difficile trovare qualcuno a cui non piaccia questa musica eccetto quel Hanslick citato da Pestelli, che aspettandosi una sonata alla Mozart o tutt'al più alla Beethoven, si era ritrovato in questo magma di note, inconscio puro prima che Freud ci mettesse le mani. Lo si può capire, l'effetto era destabilizzante. Fin troppo.

domenica 4 aprile 2010

Felix Mendelssohn Bartholdy,
Sinfonia Italiana n.4 op.90
214/49

L'immortale di oggi ha deciso di venire fuori dalla radio della macchina, mentre cercavamo di uscire da Roma iniziando un lungo viaggio verso il sud. Andando a passo d'uomo, l'Italiana era quello che ci voleva per tirare un po' su il morale e darci un'illusione di movimento. Ho scoperto che conosco questa sinfonia alla perfezione anche se non ricordo di averla ascoltata ripetutamente in una qualche stagione della vita come tanti altri brani e non so nemmeno se è contenuta nella discoteca di casa. Di fatto l'Italiana è un brano spesso trasmesso alla radio e eseguito nelle sale da concerto e contiene dei temi così cantabili e "facili" da rimanere impressi a lungo nella nostra memoria. Insomma, l'ho cantata dall'inizio alla fine.

L'incisione trasmessa era storica, l'orchestra della RAI di Torino diretta alla fine degli anni Settanta da un direttore che non conoscevo. Giusta nei tempi e nello spirito, godibile e assolutamente chiara nell'interpretazione. Riflettevo ascoltandola e cantandola su quanto complessa sia la scrittura orchestrale sinfonica rispetto alla musica scritta per il teatro d'opera, che ascolto così spesso per lavoro. Il gioco delle parti è simmetrico e ben delineato senza essere mai scontato; Mendelssohn riesce sempre ad infilare una modulazione, una sospensione, un colpo di timone che inattesamente vira verso altri lidi e i temi, in sostanza ripetuti mille e mille volte, restano sempre freschi e piacevolmente ricorrenti come onde marine.

Certo, cosa ci sia di "italiano" in questa sinfonia solo Mendelssohn lo sa. Pare che gli spunti di questo brano, poi rielaborati ovviamente, risalgano davvero ad un viaggio in Italia. Al di là di un vivace ritmo di salterello dell'ultimo movimento io non ci trovo molto. Ad ogni modo che questo capolavoro si chiami "italiana" non ci dispiace davvero...

domenica 21 marzo 2010

Anton Bruckner,
Sinfonia n.7, 214/48

L'immortale di oggi è uscito sua sponte dalla radio: un concerto in replica dell'Orchestra della RAI del giugno 2007, Juanjo Mena direttore. Avendo acceso a pezzo iniziato (da poco, per fortuna) non ho individuato subito l'autore ma sono stata colpita immediatamente da questo senso di solennità malinconica di cui parla Pestelli, una musica "lenta e ruminatrice" che in effetti mi ha accompagnato pazientemente lungo varie incombenze mattutine, in questa domenica di primissima primavera. E' una musica riassuntiva, questa settima sinfonia, in cui si trovano le ombre di un mondo che fu e le inquietudini di un mondo che nasce. Al 1883, anno di composizione, l'impero austroungarico è ancora forte e potente sullo scenario europeo; come credere che durerà ancora solo trenta anni, spazzato via dalla prima guerra mondiale? Alcune profonde crepe iniziano ad aprirsi nella società, il mondo "altro" preme ai confini di quello conosciuto (è l'epoca dell'affermarsi delle grandi conquiste coloniali, con tutto l'esotismo di ritorno che giunge in Europa), le idee nuove dei socialisti scuotono alle fondamenta la storia e il pensiero.

Non so quanto di tutto questo realmente cogliesse Anton Bruckner, con il suo carattere schivo, la biografia segnata dai continui lutti familiari e dall'ostilità dei colleghi. Questa pensosità, gravida di conseguenze e di sentimenti, si sposa però incredibilmente bene col grigio denso del cielo di fine marzo, oltre il quale attende di esplodere la primavera.

venerdì 19 marzo 2010

Johann Sebastian Bach,
Jesu meine Freude BWV 227
214/47

Non potrebbe essere più adatto l'ascolto di oggi alle mie ricorrenze personali. Oggi, infatti, si intreccia una festa pubblica con una ricorrenza privata e questo è uno dei 6 mottetti funebri che Bach scrisse tra il 1723 e il 1734. Pestelli, con la consueta acutezza, elabora questa calzante immagine per l'immortale odierno: "Davvero Bach tratta la polifonia come i grandi scultori la pietra più dura, piegandola a qualunque sfumatura del pensiero e del sentimento: così l'antitesi drammatica di carne e di spirito si rappresenta in una sintesi suprema di maestria e umanità."

Poche musiche sanno essere consolatorie come quelle bachiane. Nell'universo di questo compositore tutto il caos è ridotto a cosmo, compatto, consequenziale, coerente. Forse perchè nella sua musica, e tanto più in quella sacra, il pensiero di Dio non è mera idea ma vita vissuta, forza e confidenza. Nel cosmo esiste un dolore che non è smarrimento, una sofferenza che tende ad un fine e perciò può essere sopportata. Lo dicevamo a proposito della Johannes-Passion, lo ripetiamo adesso.

Porterò con me questa musica durante la giornata, che mi vedrà in giro tra due città, nel traffico affollato di turisti, impegnata in incontri e scambi. Ma una parte di me, sono sicura, rimarrà nella cattedrale gotica dove Gli Angeli Genève continuano ad eseguire per me questo mottetto.

P.S. a proposito, questo è il testo:http://www.bach-cantatas.com

giovedì 18 marzo 2010

Hector Berlioz,
Les Nuits d'été
214/46

Forunata coincidenza l'immortale di oggi: sto lavorando ad altro di Berlioz e mi gusto anche queste Nuits d'été, così vive e coinvolgenti. Berlioz è un genio di cui si comprende ancor di più dal confronto con i suoi tempi. Moderno, modernissimo, troppo moderno per non essere guardato con sospetto, per non avere successi solo parziali, innegabili ma anche scomodi.

Figlio di un medico che nella buona educazione borghese impartita al figlio aveva messo anche la musica, Berlioz scoprì che la sua era una vocazione travolgente a Parigi, dove si era trasferito per studiare medicina. E qui comincia a fare il "figlio pazzo": spende il mensile del padre per pagare i musicisti che possano eseguire i suoi lavori faraonici e puntualmente stroncati, contrae debiti che poi dovranno essere rifondati dallo sconcertato genitore, arranca in camere bohemienne facendo lavoretti per mantenersi, prova e riprova il Prix de Rome, si innamora perdutamente di attrici di teatro, viene lasciato da fidanzate realistiche e poco disposte ad aspettare i suoi chimerici tempi di matrimonio. Insomma, una vita vissuta intensamente in cui la passione per la musica si alimenta a quella per la letteratura, musa concreta di molte composizioni. Come questa che sto ascoltando: un insieme di sei Lieder per voce e orchestra su testi di Théophile Gautier, prima stesura per voce e pianoforte 1855.

Ascoltando Berlioz si pensa già a Baudelaire, più giovane di 18 anni: quella sensualità profonda che scorre come un fiume sotterraneo e silenziosa scava caverne fantastiche nel nostro inconscio, tirando fuori i sentimenti più forti e riposti. L'orchestrazione, come riconoscono tutti, è il punto di forza di qusto compositore: inconsueta, spiazzante, gigantesca. (E proprio questo gigantismo fu il tallone d'Achille del nostro ai suoi tempi: dove trovare quelle masse orchestrali e corali che potessero eseguire le opere di uno sconosciuto?)

E forse il miglior commento a questi brani sono proprio alcuni famosissimi versi del poeta francese, tratti da Profumo esotico. Siamo nel 1857, appena due anni dopo le nostre musiche. Eccoli:

Guidato dal tuo profumo verso climi che incantano,
vedo un porto pieno d'alberi e di vele ancora
affaticati dall'onda marina,

mentre il profumo dei verdi tamarindi che circola
nell'aria e mi gonfia le narici, si mescola nella mia
anima al canto dei marinai.

martedì 16 marzo 2010

Ludwig van Beethoven,
Trio op.97 Arciduca
214/45

"Vetta suprema nella musica da camera di ogni tempo." Così Pestelli su qusto trio beethoveniano: secco ed esaustivo, senza possibilità di repliche o ripensamenti. E siamo d'accordo anche noi.

1811 la data di composizione; Beethoven che è l'insegnante di musica dell'Arciduca Rodolfo d'Austria ha qualche giorno di tempo libero perchè il suo pupillo ha male ad un dito. Per fortuna, commenta Pestelli, visto che ci ha fruttato tale capolavoro! Ogni volta che ascolto Beethoven mi stupisco della sua modernità e lo confronto mentalmente con quanto si ascoltava nei teatri d'opera a quei tempi ma anche nelle sale da concerto. Insomma si usciva dal Settecento con le sue neoclassiche rigidità e prevedibili armonie (non parlo ovviamente di Mozart, che era considerato infatti da molti un eccentrico), soprattutto nella musica da camera che era destinata ad un consumo familiare, borghese e aristocratico non si voleva essere sconvolti da troppe novità. Eppure Beethoven riesce a mettercele, facendole passare, per così dire, dolcemente sottobanco. E così la musica che ascoltiamo piacque alle orecchie di allora ma anche alle nostre di adesso, sollevandoci in quei territori dell'assoluto che a volte ci sconvolgono con violenza ma a volte ci accompagnano con una carezza.

Pëtr Ilič Čajkovskij,
Lo Schiaccianoci
214/44



Dice Pestelli che il miracolo dello Schiaccianoci è "la capacità di guardare le cose, i soldatini, le fate, le danze arabe, il coriandolio del valzer dei fiori, con l'affetto dell'adulto che rinasce nell'animo del fanciullo, nella gemmea curiosità del suo sguardo." Io ne ho fatto la prova domenica scorsa. Mi trovavo a San Pietroburgo e non ho potuto resistere alla tentazione di prenotare un ottimo posto al Teatro Mariinsky, per guardarmi il balletto dal vero e tornare bambina anche io. Che meraviglia la danza dei fiocchi di neve, la regina delle api, la donna serpente che che balla la danza araba, i topolini del primo atto e la grande scena d'insieme finale! Scenografie da sogno e costumi sontuosi, che fanno volare anche le nostre fantasie televisive, ormai addormentate da decenni di lustrini ed effetti speciali posticci.

Se dovessi fare una vera recensione non potrei tacere delle incertezze ritmiche permesse all'orchestra dal direttore Mikhail Agrest, che avranno fatto tirar più di un interiore improperio ai ballerini che agivano sulla scena; e non potrei tacere dell'attacco sottotono del primo atto, quasi che il grammofono avesse bisogno di un giro di manovella in più. Ma per fortuna questo è il mio blog e posso essere anche faziosamente insincera e dire solo quanto tutto lo spettacolo sia stato allegro e sognante, ricco di bellezza e di grazia, di spiritosa fantasia. Che leggerezza sorridente quella di Yelizaveta Cheprasova, prima ballerina interprete di Masha in duo con Anton Korsakov, il Principe schiaccianoci! E che meraviglia le scene coloratissime di Mihail Chemiakin: valevano da sole il prezzo (esorbitante) del biglietto.

Il teatro era pieno, pochissimi turisti stranieri ma forse molti turisti russi; in marzo fa effettivamente troppo freddo per avventurarsi a quelle latitudini se non vi si è perlomeno nati. Ad ogni modo noi siamo sopravvissuti e tornati nella dolce primavera romana sani e salvi. E con un balletto in più negli occhi e nel cuore.

giovedì 4 marzo 2010

Johannes Brahms,
Sinfonia n.2 op.73
214/43

Pestelli dice che questa Seconda di Brahms è "quasi un'antisinfonia" tanto manca la retorica epica con cui ci immaginiamo paludato ogni brano che vada sotto questo titolo. E proprio musica immortale ma senza retorica ho bisogno di ascoltare oggi, un giovedì in cui la primavera incipiente si annuncia sotto forma di temporale scrosciante ma tranquillo, tributo liquido al rinascere della natura. Un che di liquido lo ha anche questa Sinfonia, in cui i fiati sono così significativi e pieni di personalità. Riporta, sempre il nostro Pestelli, un aneddoto che si attaglia bene al mio umore di oggi: al maestro di cappella tedesco che gli chiedeva il perchè del "cupo scintillamento di tromboni e timpani nelle zone profonde della partitura" poco dopo l'inizio, Brahms ricordò che anche nei quadri più luminosi c'è sempre una macchia scura che li fa risaltare ancora di più e che questo rispecchiava anche il suo carattere, profondamente malinconico, come se un frullo di ali nere risuonasse spesso sopra la sua serafica serenità.

Ascolto la versione di Karajan con i Berliner, acquistata qualche tempo fa. Sulla copertina del CD un ritratto fotografico di Karajan, già anziano con le sue belle rughe espressive, la chioma bianca e le maniche di una maglia rossa vezzosamente girate intorno al collo della camicia bianca. Un grande vecchio, non c'è che dire. Penso ai grandi vecchi di oggi: Abbado, Pollini. Ogni loro concerto è un regalo da scartare con gioia.

sabato 27 febbraio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.3 op.55 Eroica
214/42

Ascolto super-classico oggi con questa Terza che viene giù dalla bacchetta di Toscanini. E' quello che ci vuole in questo sabato di primavera anticipata, sole smagliante e cielo di Roma azzurro fosforescente che sfoggia il vestito buono. Pestelli parla dell'Eroica come della "pietra angolare di tutto il sinfonismo moderno, monumento perenne all'attività e all'energia umana." E ha ragione, definitivamente. Già dall'esordio, quegli scoppi di accordi che ti mettono sull'attenti, si capisce che Beethoven fa sul serio, se mai avessimo avuto qualche dubbio.

E' noto come questa sinfonia, scritta tra il 1802 e il 1804, fosse dedicata a Napoleone, il grande uomo che sconvolgeva l'Europa e i suoi stanchi regnanti, creando un ordine nuovo. Di lì a poco tutto sarebbe crollato come un castello di carte e ne ebbe sentore di marcio anche Beethoven, già nel dicembre del 1804, quando Napoleone si farà incoronare imperatore. Disgustato, decise di intitolare la Sinfonia "al sovvenire d'un grand'uomo" senza più menzionarlo. Napoleone non deluse solo Beethoven ma anche il nostro Foscolo che dopo Campoformio, anno 1797, si era accorto di che pasta fosse la libertà portata dal Generale: merce di scambio con il più forte, l'Austria in quel caso. Possiamo immaginare la loro delusione, simile a quella di tanti che sperano nei grandi uomini, gli uomini del "fare", gli uomini che salvano e risolvono, per poi ritrovarsi nelle mani di dittatorelli che fanno soprattutto ciò che a loro fa comodo, a danno - occorre dirlo? - di chi in loro aveva scioccamente riposto fiducia. Tant'è e la storia, che ormai non studia più nessuno, pare non insegnare veamente niente agli uomini...

Ad ogni modo, Napoleone o no, questa Sinfonia è proprio bella e noi ce la godiamo con i suoi temi travolgenti, i suoi squilli di trombe, la Marcia funebre e tutto il resto.

venerdì 26 febbraio 2010

Felix Mendelssohn-Bertholdy,
Overture Le Ebridi o La Grotta di Fingal
214/41

La Scozia è un gran bel posto. Ricordo con gran piacere un viaggio nel settembre del 2007, i prati verdissimi e i cieli cangianti, l'odore di salsedine dell'oceano che arriva ai castelli sulla costa, questo senso di vastità accogliente, le cittadine ordinate, le case piene di fiori nei giardinetti davanti all'ingresso, Edimburgo e il panorama che se ne gode dalla fortezza, un mare di tetti con il fiume che è già oceano sullo sfondo. Non mi sono spinta così a nord come fece il giovane Mendelssohn, a visitare la grotta di Fingal, da cui maturò poi l'idea di questa meravigliosa overture da concerto, che fluisce rapida e piena di sentimento per poco più di dieci minuti. Un vero e proprio ritratto musicale che risponde molto anche al ricordo che ho anche io di quelle terre.

Ascolto un CD che avevo in casa, la London Simphony Orchestra diretta da Gabriel Chmura, un'incisione del 1977, fresca e viva. Sembra davvero di sentire il mare che palpita e l'aria salsa che ti investe a raffiche. Bella anche la conclusione, seza inutili strepiti, semplice, come un'onda che si allontana portata dalla marea.

mercoledì 24 febbraio 2010

Fryderyk Chopin,
24 Preludi op. 28, Ballata n. 1 op. 23,
2 Notturni op. 27, 8 Studi dall'op. 25
214/37-40

Concerto di immortali questa sera all'Auditorio, per un solista d'eccezione, Maurizio Pollini. Devo dire che sono una habitué dei suoi concerti e almeno un paio di volte all'anno lo vado ad ascoltare, principalmente a Roma e a Siena. Stasera ci delizierà con un programma interamente chopiniano: e chi meglio di lui può permetterselo in questo anno del bicentenario?

Tutte queste musiche sono piene di ricordi: la lunga frequentazione con i Preludi e con gli Studi negli anni del Conservatorio, i Notturni, due dei quali portati al Diploma e poi lungamete ascoltati e studiati anche dopo, le Ballate mai affrontate ma sempre ascoltate con ammirazione. Chopin è nel cuore dei pianisti l'essenza stessa del proprio strumento e non si finisce mai di scoprirlo e di interpretarlo. Lo si ritrova dopo ogni viaggio verso altri lidi sonori, lo si consulta come un diuturno breviario, lo si affronta come una scalata alpina, fatica e gioia immensa.


Eccomi, tornata dal concerto. Eccellente come al solito, sala gremita (anche se devo dire che il pubblico di Santa Cecilia è il più malaticcio che abbia mai incontrato, colpi di tosse in continuazione, ma se siete così malati state a casa e curatevi!) e un presenza d'eccellenza, il Presidente Napolitano, che ha ascoltato tutto il concerto compresi i tre bis (tutti rigorosamente chopiniani: la "Caduta di Varsavia", una mazurca e uno scherzo) accanto a Cagli in brodo di giuggiole. Durante l'intervallo sono andata a salutarlo e stringendogli a lungo la mano gli ho detto quanto fossi contenta di vederlo lì, visto che è una delle poche personalità istituzionali che partecipano ad eventi culturali. Ridendo mi ha risposto: "Sa, sono 60 anni che partecipo..." Altro che i festini con massaggiatrici con cui si divagano altri personaggi...

martedì 23 febbraio 2010

Richard Wagner,
L'olandese volante 214/36

Primo ascolto wagneriano tra gli immortali. Pestelli dice che per conoscere Wagner è bene cominciare da qui; di certo l'overture di questa opera è affascinante e ti porta via come una folata di vento, verso orizzonti aperti e terribili.

La versione che avevo in casa è un'incisione storica del 1944, Clemens Krauss alla testa della Bayerischen Staatsoper e il leggendario Hans von Hotter nelle vesti di Dalan. Devo aver comprato questo CD in qualche svendita d'occasione, mi pare di ricordare vagamente "Il Libraccio" sui Navigli milanesi, nell'anno in cui abitavo lì. Era sicuramente prima di diventare acerrima nemica delle edizioni storiche, astenendomi assolutamente dall'ascquistarne: generose di fruscii e gracchi che niente hanno a che vedere con la musica, difficilmente ci dicono granchè dei loro passati splendori. Ad ogni modo, per oggi ce la facciamo bastare.

Si ha un bel criticare da parte dei musicologi del Novecento ma alla fine Wagner è sempre Wagner. Eccessivo, travolgente e stravolgente, grandioso e ineffabile, ha permeato talmente la nostra cultura, musicale e non, che ormai è parte di noi, al di sopra di ogni giudizio, al di là del bene e del male.

L'altro nome di questa opera è Il vascello fantasma ; in effetti la leggenda parla di una nave fantasma che non riesce a tornare a riva e viene avvistata dai marinai nelle notti di tempesta. Wagner, dal canto suo, aveva rischiato di fare la fine del topo su un vascello simile nel 1839 quando, tentando di scampare ai creditori scappando a Londra, aveva fatto quasi naufragio. La prima dell'opera è datata 1843 e segna l'inizio del nuovo corso wagneriano: leit motiv, melodia infinita, mito e folclore. Non manca nulla per fare un giro sulle ali della grande musica...

lunedì 22 febbraio 2010

Claudio Monteverdi,
Il combattimento di Tancredi e Clorinda
214/35

Dice bene Pestelli che "esistono musiche che sono più importanti che belle, voglio dire dove la bellezza conta meno del peso specifico della composizione." E questo è decisamente il caso: non vorrei apparire blasfema ai sacerdoti della storia della musica ma alcune opere del primo barocco sono davvero difficili da digerire, anche quando sono scritte da Monteverdi su un testo di Tasso. Forse il busillis sta nel fatto che, come dice più avanti il nostro, "il gesto teatrale sembra suggerire l'invenzione musicale; qualche volta più che suggerirla la sostituisce addirittura." E dunque, se noi questo gesto teatrale non lo vediamo, la musica da sola perde parecchio.

Approfitto per una volta di un ascolto fatto per lavoro, unendo per così dire l'utile al dilettevole. Anche se confesso che di dilettevole in questo Monteverdi ne sento poco: questi affetti esasperati, queste voci teatrali, sia pure spezzate da alcune felicissime invenzioni strumentali, non mi conquistano.

E dunque ascolto i circa venti minuti di questo Combattimento con le orecchie della mente ma non con quelle del cuore, da un'edizione miscellanea che raccoglie musiche barocche sulla Gerusalemme liberata; chissà se l'incisione consigliata da Pestelli, il classico e insuperato Consort of Musicke diretto da Antony Rooley avrebbe fatto la differenza...

lunedì 15 febbraio 2010

Domenico Scarlatti,
Sonate (214/34)

Dice bene Pestelli: "quando si dice Domenico Scarlatti più che a temi o a sonate precise si pensa a un concetto sonoro, a uno stile, a un clima generale in cui centinaia di sonate per clavicembalo si sovrappongono in una girandola luminosa." E stasera, dopo un lunedì di lavoro in biblioteca, ho proprio bisogno di questa musica "sferica", altra definizione pestelliana, risolta in se stessa che, senza banalizzare, propone una visione coerente del mondo, anzi dell'universo.

Non sono invece d'accordo sul fatto che il pianoforte utilizzato da Horowitz renda queste Sonate di più immediata comprensione. In realtà la bidimensionalità di questa musica è resa alla perfezione dall'algida sonorità percussiva del cembalo, laddove il suono del pianoforte è indissolubilmente legato nel nostro immaginario ai compositori romantici e a certe espressioni del sentimento. Però Horowitz, da gigante qual è come direbbe un mio carissimo amico, non indulge in alcuna svenevole romanticheria e il suo è il pianoforte più cembalistico che si possa immaginare.

Ma quante sono le sonate di Scarlatti? Una fonte da verificare ne conta 555 (numero un po' troppo simbolico per non dubitarne, non vi pare?), molte delle quali scritte per la corte di Madrid, dove visse a lungo come maestro di cappella. Ovviamente c'è molto mestiere in queste brevi sonate; tuttavia la felicità dell'invenzione melodica e spesso di quella armonica, ne rende molte dei piccoli capolavori. Che mi godo dal mio I-Pod, in attesa che si faccia l'ora di cena, cercando di purificare le fatiche di questa intensa giornata di lavoro.

sabato 13 febbraio 2010

Claude Debussy, Preludes, vol. I
214/33

Niente di meglio che accompagnare questo sabato, freddo ma luminoso dopo tanta pioggia, con l'impalpabile evanescenza dei Preludi di Debussy. In casa ho ben due possibilità di scelta: Thiollier e Canino.

Pare che dopo il bachiano Clavicembalo, comporre una raccolta di preludi fosse diventato un must per ogni compositore che si rispetti. E Debussy non sfugge a questa seducente sirena, concludendo nel 1910 il primo di due volumi di preludi. Immersi totalmente nella poetica del simbolismo, sono una delle più calzanti incarnazioni dell'aria che si poteva respirare nella Belle Epoque: malinconia, mistero, sensualità, nostalgia, stupore, segreto, umorismo, sguardo acuto e ironico sulla realtà. Ciascuna composizione ha un titolo ma Debussy lo pone alla fine del pezzo e non all'inizio, quasi a dire: "Le parole sono il suggerimento di un'immagine ma non fateci troppo affidamento: la musica è solo musica." I titoli però sono davvero suggestivi: Le danzatrici di Delfi, Vele, Il vento sulla pianura, Suoni e profumi nell'aria della sera (e questo è pari pari un verso di Baudelaire, vate di questa generazione di artisti), Le colline di Anacapri, Passi sulla neve, Il vento dell'ovest, La fanciulla dai capelli di lino, Serenata interrotta, La cattedrale inglese, Danza di Puck (e qui fa capolino Shakespeare del Sogno di una notte di mezza estate), Menestrelli. Ancora una volta musica e letteratura si intrecciano e rinforzano l'un l'altra i propri significati.

Mi coglie sempre un brivido pensando che tra qualche anno tanta bellezza sarebbe stata spazzata via dalla Grande Guerra e che questa evanescente raffinatezza non riuscirà a contrastare un solo colpo di granata. Il brivido raddoppia perchè mi sembra di scorgere tanta somiglianza tra ciò che accadeva 100 anni fa e ciò che accade adesso. Mentre gli intellettuali si chiudono nelle loro torri d'avorio, nei teatri e nelle sale da concerto, la barbarie avanza sotto forma di televisione volgare e sboccata che istilla in chi la guarda le nuove leggi della non-convivenza civile: ha ragione chi urla più forte e chi picchia più duro. Al principio dei secoli nuovi, i cascami di quelli precedenti brillano per un attimo in tutto il loro splendore per poi sparire inghiottiti dalla palingenesi ricorrente. Che ci aspetterà in questo XXI°secolo? Staremo a vedere. Intanto lascio che Debussy mi culli tra le sue note di cristallo e d'argento.

venerdì 12 febbraio 2010

Franz Joseph Haydn,
Sinfonia n.88
214/32

Intervistando qualche tempo fa un noto scienziato, alla mia domanda su quale musica preferisse, mi sentii rispondere: "Musica allegra, Mozart, Beethoven." Al di là dell'ovvia banalità, intuitiva ma tutt'altro che facilmente dimostrabile - che cosa vuol dire musica "allegra"? - forse tra i compositori di musica "allegra" potremo mettere anche Haydn, che almeno era allegro di suo. I biografi, infatti, parlano di un carattere amabile che lo rendeva accattivante, nonostante l'aspetto non fosse quello di un adone. Allegria in musica forse è umorismo, sorpresa, capacità di scrivere melodie che ci restano felicemente impresse nella memoria già al primo ascolto. Be', forse tutte queste caratteristiche la Sinfonia n.88 le ha.

Pestelli, con la consueta arguzia: "...se uno ascolta bene, ad esempio, la Sinfonia n.88 potrà dire di conoscere da un solo CD tutto il patrimonio di umorismo, d'intelligenza, di gioia che le sue sinfonie hanno regalato al mondo." E più avanti una notazione ancora più suggestiva: "ben a ragione i contemporanei di Haydn lo avevano paragonato a Laurence Sterne: come nello scrittore inglese, la qualità umoristica di Haydn è quella di scrivere una sinfonia e allo stesso tempo ragionare con l'ascoltatore sul lavoro che sta facendo, uscire dal quadro, mostrargli le possibilità e poi sorprenderlo con una mossa nuova e inaspettata. Nessun musicista prima di lui era arrivato a tanto."

Ascolto l'incisione consigliata, Wiener Philarmoniker diretti da Bernstein: estremamente fluida, i tempi sono giusti e l'umorismo c'è tutto. La prossima volta che qualcuno mi chiederà musica allegra saprò che consigliare...

giovedì 11 febbraio 2010

Johannes Brahms,
Rapsodia per contralto op.53
214/31

Quanta musica prende il via dalla poesia. E non parlo ovviamente solo del melodramma, che anzi lì davvero la parola è serva della musica, come diceva qualcuno, ma di tanta musica strumentale o corale proprio come questa rapsodia. Certo anche ascoltarla senza comprendere le parole è qualcosa che impressiona il cuore e la mente. Ma ascoltarla dopo aver letto le parole di Goethe, che il contralto canta, è entrare in un mondo di incredibile emozione.

1777: Goethe compone Harzreise im Winter, dopo una serie di passeggiate invernali intorno al fiume Harz. La forza e la bellezza della natura colpiscono il poeta che è anche naturalista e guarda con occhio attento e partecipe ogni cosa del paesaggio. 1869: Brahms sceglie tre strofe del poemetto, la quinta, la sesta e la settima e le trasforma in una rapsodia. Le parole sono cantate da un contralto, la voce femminile più calda, come se fosse proprio la Natura a cantare. E le parole dicono questo più o meno:

Ma chi è che si nasconde laggiù? Il suo cammino vaga nel fitto del bosco e si è perso, piante ed erbe si richiudono al suo passaggio e la natura selvaggia lo inghiotte.

Ah, chi guarirà il suo dolore, il cui antidoto si cambiò in veleno, chi bevve il suo odio di uomo dalla pienezza dell'amore? Prima fu disprezzato e ora disprezza egli stesso e così facendo divora segretamente, egoista insaziabile, tutto ciò che di buono è in lui.

Ha una nota il tuo salterio, o Padre dell'Amore, che il suo orecchio possa sentire? Consola allora il suo cuore. Ridà la vista al suo sguardo annebbiato e permettigli di vedere tutta l'acqua che sgorga intorno a lui, dal deserto dove giace assetato.


Pestelli considera questa Rapsodia "forse la composizione di Brahms che più si addentra nella malinconia e nel malessere del vivere" pur riuscendo a comunicarci col suo "canto d'inflessibile bellezza" una risposta di pienezza. Vaghiamo col viandante impaurito nel fitto del bosco anche noi e la nota che ci salva è questa di Brahms, filo d'arianna per uscire dal caos.

martedì 9 febbraio 2010

Franz Schubert, Lieder (214/30)

Josquin Desprez, Chansons (214/29)

Robert Schumann, Humoreske (214/28)

L'ultima settimana l'ho trascorsa in viaggio nel nord Italia ma non per questo mi sono allontanata dagli immortali. Facendo scorta di alcuni capolavori sul mio fedele I-Pod, ho ascoltato soprattutto in treno, da una città all'altra, e inevitabilmente la musica ha preso il colore del paesaggio. Scrivo quindi tutte insieme le note degli ultimi tre ascolti.

Mercoledì pomeriggio di una giornata frenetica. Ho accelerato i ritmi di lavoro e compresso quello che avrei dovuto fare nella settimana, in due giorni e mezzo. Prendo la Freccia Rossa che in un baleno mi porterà da Roma a Milano. E mi godo tre ore di sospensione del tempo, tre ore per me, in cui mi riposerò lasciandomi cullare dal dondolio sfrecciante del treno e dalla voce elegante e pura di Elisabeth Schwarzkopf che canta 12 Lieder di Schubert. Pestelli ci mette del suo nel farmela vedere: altera e fascinosa nei suoi meravigliosi abiti da sera che "parevano ancora più splendidi accanto alla nera massa del pianoforte a coda." Chissà se Edwin Fisher, che la accompagna in questo CD EMI, era un po' innamorato di lei... An die Musik è così struggente che ti incatena al filo dell'ascolto: "cantava quelle note e quelle parole con una nobiltà e un fervore che stava tra la preghiera, l'inno e l'intima confessione: quel "grazie" alla musica, tutto il pubblico se lo ripeteva con lei e per lei." Amen.

Due giorni dopo prendo un altro treno al volo: destinazione Verona. Milano è tutta bianca dopo una notte e una mattinata di neve, gran parte della quale mi si è sciolta nelle scarpe (le mie fantastiche valigette Bric's hanno invece preservato asciuttissimo tutto il loro contenuto, meno male). Nel treno il riscaldamento è adeguato alla giornata, gli altri passeggeri sono tranquilli ed educati ed io posso godermi il mio immortale, incarnato oggi da quattro chansons di Josquin Desprez, ascoltate nell'edizione consigliata da Pestelli, dalle voci dell'Hilliard Ensemble. Ne ho scelte quattro - e mi sono pentita al primo ascolto di essere stata così parsimoniosa, sono splendide! - El grillo è buon cantore, Mille regretz, Petite camusette, Je me complains. Io la Milano di Josquin la vedo: una grande città della metà del Quattrocento, in ascesa, forte e prepotente ma desiderosa anche di essere raffinata quanto le più nobili rivali, Roma, Firenze, Ferrara. E allora che vengano i migliori pittori, poeti e musicisti a rallegrare e dare lustro alla dinastia degli Sforza, mentre Leonardo dipinge L'ultima cena e prepara scenografie incredibili per le feste del castello, inventa macchine da guerra contro i nemici e progetta miglioramenti per i Navigli. Pestelli dice che Josquin è "un maestro che per il primo ha conquistato alla musica un'importanza pari a quella della altre arti nella società del Rinascimento europeo." Come dargli torto?

Così scrive Robert a Clara, futura moglie: "Tutta la settimana sono stato al pianoforte e ho composto, riso e pianto allo stesso tempo; troverai l'impronta di tutto ciò nella mia grande Humoreske." Come non provare un brivido di fronte a questo stato di ebbrezza, sapendo che Schumann spegnerà i suoi giorni nella follia? Si è ancora nel 1838 e gli dei gli concederanno ancora tanti anni di lucidità per comporre capolavori ma anche questo è uno dei presagi di cui la sua vita è fitta. I brani vivaci e vari di Humoreske, dai ritmi inusuali per l'Ottocento romantico e dai repentini cambi di sentimento, hanno accompagnato il viaggio da Siena a Roma, in una giornata invernale e brumosa. Pestelli magnifica, e ne ha ben ragione!, questa interpretazione di Radu Lupu "con cambi di umore rapidi come nuvole temporalesche, unendo i frammenti che zampillano in un solo corso continuo, fra marce, trotti di cavalieri, confessioni e motti d'arguzia, arabeschi e romanze." Io ho ascoltato e riascoltato più e più volte questa mezz'ora scarsa di musica, fondendola con le colline e i campi della Toscana, con le città sugli speroni di tufo dell'Umbria, con le valli verdi di pascoli del Lazio, fino al delirio urbano di Roma.

lunedì 1 febbraio 2010

Maurice Ravel,
Le Tombeau de Couperin
(214/27)

Pare che gli abbozzi di questa suite risalgano al 1914, stesso anno di composizione del Trio, di cui si parlava qualche pagina fa. La Grande Guerra guidò e trasformò questo capolavoro, pubblicato poi nel novembre 1917, in un solenne ma assolutamente non retorico epitaffio, in ricordo di un grande compositore certo, Couperin, ma anche di uomini che erano stati compagni di Ravel al fronte. Se si ha la pazienza di leggere quei caratteri in piccolo al principio di ogni brano dello spartito, infatti, si scopriranno altrettanti nomi di giovani caduti che voglio ricordare qui: Jacques Charlot, Jean Cruppi, Gabriel Deluc, Pierre e Pascal Gaudin, Jean Dreyfus, Joseph de Marliave. Sono certa che ciacuno di loro ha dato il proprio volto e il proprio carattere al pezzo che accompagna, nella mente e nel cuore di Ravel. Tornare allora alla asciutta severità del barocco di Couperin ha significato anche eliminare tutte le reverie della belle epoque, distillando un linguaggio moderno che, secondo Pestelli, "non solo anticipò di qualche anno il fiorire del neoclassicismo musicale europeo, ma seppe instillare in questa corrente di gusto un poco intellettualistico qualcosa di severo e di scavato, di doloroso quasi."

Ascolto l'interpreazione di Françoise-Joël Thiollier del 1994, in un CD Naxos che è il secondo di un'opera completa pianistica di Ravel. L'eleganza e la leggerezza per eseguire questo repertorio, Thiollier ce l'ha tutta. Non sono molto d'accordo sul tempo scelto per il Preludio, davvero troppo veloce, ma il resto è cesellato quasi ovunque con sapienza, in particolare nell'accentuazione del ritmo sincopato di molti di questi brani, che sono novecenteschi in tutto e per tutto, sotto la patina classica.

Giuseppe Verdi,
La traviata

Anche quest'opera è una miniera di ricordi. La prima volta che la vidi a teatro fu nel 2001, alla Scala. Era l'anno delle celebrazioni verdiane e con un gruppetto di matti, che allora frequentavo, si andava a prendere i biglietti di loggione. Detta così pare semplice; in realtà era una vera e propria maratona, permessa dall'età, dall'entusiasmo e dalla amena compagnia. Per ottenere i famigerati biglietti di loggione, dove ti può toccare di stare pure in piedi se non corri per le scale abbastanza in fretta, bisogna rispondere ai cosiddetti "appelli". Ovviamente ce n'è più d'uno e si tengono di notte, l'ultimo verso l'alba. Be', noi ci facevamo gli appelli del sabato, stavamo praticamente in piedi tutta la notte con la mitica colazione finale al caffè Varenna di Corso di Porta Ticinese, alle 6 di mattina. Poi tutta la domenica a dormire e alle 18 si era allo spettacolo, belli, riposati ed eleganti. Per allenarci a tale tour de force e mantenere alto il morale della truppa, la rappresentazione era preceduta da due o più cenette pro-opera a casa dell'uno o dell'altro, durante la quale si ascoltavano le arie e io ero incaricata, in quanto professoressa allora in pectore, di raccontare la trama. Ci siamo divertiti e ci siamo ascoltati un sacco di belle opere. Tra cui Traviata. Di cui ero sicura di avere almeno una selezione dell'opera e invece nisba, nella mia discoteca casalinga (ma qui sospetto un furto e ho anche dei forti sospetti...).
Tra i ricordi c'è un'altra Traviata più recente, questa volta all'Opera di Roma nel 2007, con le scene di Zeffirelli e diretta da Gelmetti, non male ma nemmeno da strapparsi i capelli e oltretutto un secondo cast. Ho però il programma di sala, con dei saggi che prima o poi rileggerò; noto solo che la maggior parte sono riciclati e i pochi originali sono scritti da studenti del primo anno di DAMS, nell'ambito di un progetto "Studiare con l'opera", che non so se c'è anche adesso. Magari saranno anche più interessanti di quelli dei musicologi blasonati ma dubito che glieli abbiano pagati (mentre a noi avranno chiesto i soliti 10 euro pieni).

Come giustamente sottolinea Pestelli, oggi la carica eversiva del soggetto - che forse in Verdi non fu nemmeno così essenziale - non fa più rumore; la morale corrente si è piegata a ben peggiori misfatti di quelli che poteva aver commesso una mantenuta, morta per di più di tisi e quindi già punita dalla natura. "L'opera continua a commuovere per la storia interiore della protagonista, per come Violetta conquista se stessa a dispetto di tutti." Il sacrificio d'amore di Violetta è quello che più ci colpisce, soprattutto in una società individualista come la nostra in cui rinunciare all'amore e al piacere personale per il bene dell'amato, sembra una follia (e invece molto spesso sarebbe una grande saggezza; vedi coppie male assortite per età e ceto sociale che poi fanno una triste fine, triste soprattutto per chi è il più debole dei due). Ma chiudiamo qui il siparietto moralistico e passiamo all'opera.

Sto ascoltando una versione con la Callas che mi è stata scaricata e regalata. Come al solito le informazioni sono scarse e ricostruire chi sono i cantanti e il direttore impresa vana: dovrebbe essere, con un ragionevole margine di dubbio, quella del 1958 con Ghione sul podio, Kraus e Sereni, registrata a Lisbona. Che dire: la Callas è la Callas e anche musicalmente i tempi sono vivaci e azzeccati anche se sento tutto un po' velato per via della registrazione vetusta e live, come proveniente da nebbie del passato remoto. Quello che mi balza agli occhi, anzi alle orecchie, è che quasi tutti i momenti di questa opera sono diventati famosissimi e ci risuonano noti e familiari.

giovedì 28 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Trio «dei birilli» K. 498

Francamente perchè il benemerito Pestelli abbia inserito questo Trio dei birilli tra gli immortali, mi resta oscuro. E' tutto il giorno che lo ascolto, più attentamente e meno attentamente: certo per essere Mozart è Mozart, con l'eleganza e la leggerezza tipiche di certa sua musica da camera, scritta per gioco o meglio per far giocare i nobili, amanti di musica e musicisti dilettanti. Però da qui ad accostarlo alla Quinta di Beethoven... Ad ogni modo, ho deciso di ascoltarmi tutti e 214 i capolavori indicati da Pestelli e così farò; anche oggi ho fatto la mia parte.

L'edizione che sto ascoltando, comprata stamattina su ibs, è un'incisione Deutsche Grammophone (penso degli anni '70, almeno a dire dagli abiti degli interpreti in copertina): Gidon Kremer, Kim Kashkashian, Valery Afanassiev. Garbati, delicati ma frizzanti quando necessario, pieni di buon gusto insomma, niente da eccepire.

Dice il buon Pestelli con la consueta penna felice: "...questa musica è tutta percorsa da una corrente di domande e risposte, di commenti e sottolineature, che nella sua trama elementare, evoca tutta la vita del linguaggio musicale, con le sue profondità e le sue sapienti frivolezze." Possiamo aggiungere noi che anche tanta altra musica lo è. E se dovessimo appellarla "immortale" solo per questo...

lunedì 25 gennaio 2010

Johann Sebastian Bach,
Johannes-Passion BWV 245

Oggi 2 ore, 8 minuti e 48 secondi per ascoltare tutta la Johannes-Passion proprio non li avevo. Però 11 minuti e 10 secondi, sì; e così mi sono scaricata dal solito ibs il coro iniziale "Herr, unser Herrscher", nell'edizione consigliata da Pestelli, Karl Richter col Münchener Bach-Chor e Orchester.

E' stato come aprire una porta sull'inferno dell'orrore e del dolore, all'improvviso. La modernità di Bach e la sua attualità sono sconvolgenti, ti aggrediscano senza scampo. Cosa meglio di questa musica ti spiega il mistero della Passione, nel suo carnale orrore? Un uomo che muore dilaniato sulla croce, in un supplizio lento e muto, che contiene in sè tutte le grida del mondo, tutte le sofferenze senza consolazione, tutte le ingiustizie senza riscatto. Solo il mistero della resurrezione può farci accettare un tale destino e dare una luce di superiore verità a questo strazio. E allora il dolore diventa sacrificio, il caos cosmo di nuovo e la nostra vita sulla terra il tassello di una trama più grande, che possiamo sopportare in qualche modo.

Meno nota della Matheus-Passion, questa è la prima Passione scritta da Bach, all'età di 37 anni, nel 1724. Del testo tedesco del coro iniziale ho trovato solo questa traduzione in inglese, che tralascio dal tradurre ulteriormente in italiano.

Lord, our master,
whose fame is glorious in all lands!
Show us, by thy Passion
that thou, the true Son of God,
hast for all times
even in thy deepest lowliness,
been glorified.

domenica 24 gennaio 2010

Johannes Brahms,
Sinfonia n.1 op.68

Andando avanti in questa impresa mi rendo conto di quanto la mia discoteca casalinga sia nata senza un criterio, sull'onda di esigenze di lavoro o della casualità dell'edicola. Infatti nemmeno questo capolavoro era presente, nonostante fosse una mia vecchissima conoscenza: lo ascoltavo sin da ragazzina da un grande LP, che faceva parte di una collezione di capolavori, quella sì, organica e seria (anzi, forse dovrei recuperarla a casa di mia madre e dotarmi di un piatto per poterla ascoltare). Visto che è domenica ho deciso di concedermi un salto da Ricordi a via del Corso e di scegliere qualcosa anche per i successivi appuntamenti brahmsiani - a Pestelli piace parecchio questo autore, a dire dal numero di sue composizioni che ha inserito tra gli immortali...

Ascolto i Berliner diretti da von Karajan, un'incisione Deutsche Grammophone degli anni Settanta, rimasterizzata che contiene tutte e 4 le sinfonie. Seraficamente terribile, una specie di aquila che vola sugli altopiani. Pestelli suggerisce quella storica di Furtwaengler, di cui in fondo Karajan è l'erede, almeno per queste sinfonie. E ad ogni modo, davvero nulla da dire; solo abbandonarsi alla maestosa grandezza di questa musica, che ti avvolge completamente come un buco nero (e attenzione a non perdersi!).

Anche se la prima esecuzione di questa sinfonia risale al 1876, pare che Brahms cominciasse a lavorare ai primi abbozzi quando aveva 22 anni; perchè tanto tempo per completarla? Forse perchè Brahms, come è stato detto da più parti, sentiva veramente di essere l'erede di Beethoven e di poter continuare a dire una parola di verità dopo la Nona, che sembrava aver messo fine alle possibilità di questo genere musicale. E infatti fu Hans von Bülow, uno dei maggiori direttori d'orchestra della sua epoca, a dire che "il mondo musicale aveva una Decima sinfonia", come riporta Pestelli, intendendo che "la storia della sinfonia riprendeva il suo corso alle stesse quote di quel modello, ma senza imitazioni accademiche."

sabato 23 gennaio 2010

Georges Bizet,
Carmen

"Carmen è un mito che ciascuno porta in sè e solo in parte trova soddisfazione in realizzazioni concrete." Così Pestelli. E certo la realizzazione concreta che sto ascoltando in questo momento, un DVD comprato in edicola (è la prima volta, confesso, ed ero curiosa del risultato), Daniel Oren sul podio del San Carlo, Nadja Michael Carmen e Sergej Larin Don José, è una registrazione così scadente che non riesco nemmeno a farmene un'idea. L'unica cosa armonica è il giallo dominante di scene - minimalistiche - e costumi; tra l'altro si intona incredibilmente con l'arredamento del mio soggiorno, dove campeggia il televisore (ormai cieco e muto, non ho comprato il decoder, ma ancora abilissimo a riprodurre film e Wii).

Scherzi a parte, meglio ricordare con le orecchie della memoria la bella edizione in forma di concerto cui assistetti nel 2003 a Santa Cecilia, diretta da Prêtre, e che mi entusiasmò letteralmente con la sua vivacità e coerenza di fondo.

E' vero che Carmen è un mito: il mito della libertà al di sopra delle regole, di un prendere la vita come viene e morderla per farne uscire il succo, non importa quanto sappia di sangue. Non c'è da stupirsi che al borghese pubblico parigino del 1875 sembrò un pasticcio inguardabile: tutta invidia, in realtà, e di lì a poco anche la morale sarebbe cambiata (pensate ai romanzi di D'Annunzio, per scendere in particolari nostrani...). E infatti a gente con un po' di sale in zucca (e sto parlando di Brahms, Bismark, Čajkovskij, Saint-Saënse, Wagner e Nietsche) la Carmen piacque, eccome. Peccato che Bizet non visse abbastanza per godere il suo trionfo: morì il 3 giugno di quello stesso 1875, senza arrivare al 23 ottobre in cui il pubblico viennese applaudì con slancio il suo capolavoro.

venerdì 22 gennaio 2010

Georg Friederch Haendel,
Water Music

"Se c'è una musica che bisogna ascoltare tutte le mattine prima d'incominciare le solite occupazioni, nulla di più tonico e corroborante si può trovare della Water Music", esordisce così il nostro Pestelli. E io ho fedelmente ubbidito al suo suggerimento scaricando dal solio ibs le tre suites complete, Trevor Pinnock alla testa dell'English Concert, un'esecuzione classica, visto che "questa musica potrà mettere in forma lo spirito per buona parte della giornata."

Effettivamente nulla come la musica barocca sembra dare un ordine al caos delle nostre giornate metropolitane del XXI° sec. E non perchè sia "allegra", come qualche sprovveduto sostiene, quanto piuttosto perchè si propone di dare un ordine alla complessità. E ci riesce. Acoltando i barocchi ci affacciamo sul ventaglio dei sentimenti umani da un'altissima terrazza assolata, da cui la vista spazia senza limiti. E vediamo che gli ostacoli delle montagne si risolvono poi in dolci pianure e che non lontano da aridi campi scorrono fiumi ricchi d'acqua.

Fortunato Giorgio I, che commissionò questa musica a Haendel per il suo insediamento nel 1717 (mentre Bach scriveva i BWV 1041-1043...) e se l'ascoltava portandosela dietro sul Tamigi, con i musicisti che suonavano su una chiatta. Ma più fortunati noi che con un semplice I-Pod ce la portiamo dove vogliamo. E' proprio quello che farò io oggi e forse mi sentirò un po' più "regale" del solito...

giovedì 21 gennaio 2010

Pëtr Ilič Čajkovskij,
Concerto n.1 per pianoforte e orchestra

Per l'immortale di oggi, un ascolto futuristico. Approfitto di una novità della RAI lanciata da qualche mese, la trasmissione di concerti in streaming web audiovideo (trovate il programma sul sito dell'Orchestra RAI di Torino: www.orchestrasinfonica.rai.it). Che dire. Anche la radio cresce e abbraccia nuove frontiere. Durante un interessantissimo convegno sulla radio che si è tenuto a Parma lo scorso dicembre alla Casa della Musica si parlava proprio delle nuove frontiere di questo mezzo, che ha fatto crescere musicalmente gli italiani lungo tutto il Novecento. E le nuove frontiere, si fa presto a capirlo, sono le possibilità del web che rende incredibilmente interattivo anche questo mezzo, fino ad ora "a senso unico." E soprattutto lo ibrida con la televisione. Vedremo dove andrà a finire ma mi sembra che sia partito già bene. D'accordo, la ripresa è a camera fissa per la maggior parte del tempo, il solito francobollo nel nostro schermo, la qualità audio non sarà il meglio possibile nell'etere ma io direi che le premesse per lo sviluppo ci sono tutte e che la radio si arricchisce di una nuova possiblità: dare un paio di occhi ogni tanto ai suoi affezionati.

In questo caso posso vedere in carne ed ossa solista e direttore, rispettivamente Hüseyin Sermet e Alpaslan Ertüngealp, turchi entrambi. E l'impressione è proprio quella di esserci. Non è come quando guardi un concerto in televisione, con quelle riprese montate, a volte un po' finte o, peggio, alternate a quelle svenevoli immagini di fiori e paesaggi campestri; è piuttosto come guardare dal buco della serratura, intrigante...

Sermet si lancia nel suo bis (una sonata di Antonio Soler) e devo dire che suona bene, dà un po' di meditativa pensosità ai ricami sonori del compositore del Settecento. Il Concerto non l'ho ascoltato con grande attenzione, tutta presa dalla novità del mezzo e dall'andare su e giù dalle varie finestre, chiedo venia! In compenso si stanno scatenando i messaggi degli ascoltatori che via mail già commentano e recensiscono, letti dagli speaker RAI, bravi! bravissimi! (ecco l'interattività di cui parlavo prima...). E mentre i commessi spostano le sedie sul palco per preparare la seconda parte, io mi dedico a spigolare dal mio Pestelli.

Questo concerto è definito una "vulcanica meraviglia che nessun consumo moderno è ancora riuscito a rendere inoffensivo." Io direi che in alcuni punti è davvero trionfale: il pezzo adatto per questo primo ascolto del futuro.

martedì 19 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.7 op.92

Wolfgang Amadeus Mozart,
Concerto per clarinetto e orch. K.622

Concerto anche stasera e due capolavori in un giorno, sto battendo tutti i record... Dunque, sul podio di Santa Cecilia il direttore prodigio Diego Matheuz, 25 anni, sorriso venezuelano e capigliatura nerissima e fluente. Volevo proprio andare a sentire con le mie orecchie se questo sistema musica che ha tirato fuori dalle favelas decine e decine di ragazzi sudamericani, produce davvero musicisti in gamba. E sono stata accontentata. Con un programma così classico (e la serata si concludeva con un altro Beethoven, il Leonore III) che è quasi una "prova del 9", non si scappa: o sai dirigere o non sai dirigere e devo dire che, dopo qualche incertezza iniziale (poca fluidità nel gesto, tempi un po' troppo ampi) dal Presto della Settima è stato tutto un fuoco di emozioni. Di certo i 25 anni di questo Maestro non sono quelli di un nostrano "bamboccione" ma il fatto che sia così giovane si sente piacevolmente: nel piglio, nel ritmo, nell'energia che infonde ai musicisti e alla sala, per altro gremita anche nei posti dietro l'orchestra. I corni si sono presi qualche libertà e qualche stonatura di troppo che Pappano non gli avrebbe lasciato passare; ad ogni modo, il concerto è andato. E più che bene.

Veniamo ai pezzi. La Settima venne eseguita per la prima volta l'8 dicembre del 1804, in una serata di beneficenza che raccoglieva fondi per i feriti della battaglia di Hanau. Il generale austriaco Karl Philipp von Wrede aveva cercato di sbarrare la strada a Napoleone che, seppure in ritirata, era sempre un grande stratega; e infatti ebbe la meglio, lasciando cadaveri austriaci dappertutto. Il successo del concerto fu strepitoso e la musica, è proprio il caso di dirlo, una cannonata. Pestelli dice, con la sua solita eleganza: "il ritmo è tutto, sbriga le mansioni dell'umile servitore e folgora come un generale al posto di comando."

Il K.622 è filato liscio come un tappeto di velluto. Merito della scrittura di Mozart, intima ed elegante e merito di Alessandro Carbonare, eccellente prima parte dell'orchestra e assoluto virtuoso, che per l'occasione ha rispolverato il clarinetto di bassetto, strumento per cui questo concerto era stato scritto e che è ormai sparito dalla circolazione. Avevo già ascoltato alcuni anni fa lo stesso concerto eseguito da Carbonare, era forse il 2003 anno in cui è diventato solista dell'orchestra romana, e lo ricordavo con grandissimo piacere. Lo stesso provato stasera, riascoltandolo: perfetto e calibrato in ogni momento, mai una sbavatura, mai un eccesso, sembrava averlo scritto lui il concerto, talmente fluida e piena di senso era la sua interpretazione. Bellissimo il bis in solo che ci ha regalato: una reverie jazz, di grande raffinatezza. Questo è l'ultimo concerto scritto da Mozart, sarebbe morto pochi mesi dopo, e siamo nell'ottobre 1791. Pestelli scrive: "la bellezza di queste opere immortali ha qualcosa di misterioso e di indecifrabile proprio perchè elementare." Sì, è proprio una di quelle opere in cui Semplicità e Bellezza coincidono perfettamente.

Questa bella serata mi ha portato una sorpresa. Ho incontrato per caso all'entrata una signora che abita nel mio stesso palazzo e con cui non avevo mai avuto modo di scambiare più che poche parole di circostanza in dieci anni. Mi era sempre piaciuta molto però, coi suoi modi garbati, la chioma candida, la figura alta e magra, un po' curva per gli anni ma sempre elegante, come i suoi tailleur senza tempo e il suo sorriso radioso. Stasera siamo tornate a casa insieme e abbiamo avuto modo di parlare più a lungo; ho scoperto che dietro quel sorriso ci sono tante sofferenze, portate con dignità e ferma sopportazione. Sul portone mi ha detto: "Diamoci del tu." E così adesso siamo amiche.

Anche lei in fondo è un po' come i pezzi di questa sera: vecchie conoscenze che ci possono stupire, se solo ci fermiamo ad ascoltarle meglio...

lunedì 18 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sonata per pianoforte n.23 op.57 "Appassionata"

Probabilmente per Ashkenazy la passione coincide con l'arrabbiatura. Eccessivamente arrabbiata, piena di strappi e di inaudite velocità, è l'interpretazione che avevo in casa, un CD allegato ad un «The Classic Voice» di qualche anno fa. Partitura alla mano e ben altre esecuzioni nelle orecchie, non ultima quella di Maurizio Pollini lo scorso 18 agosto al Teatro dei Rozzi di Siena, dove ormai è un'abitudine andarlo ad ascoltare, l'ho sopportata da cima a fondo. Per poi andare di filato al mio computer e scaricarmi la versione di Pollini che sto ascoltando adesso, finalmente. Questa volta sono andata a comprarla su www.ibs.it, fornitissimo di belle edizioni di musica classica, molto più di I-Tunes, che sulla classica non sempre è soddisfacente. L'incisione è del 2003, il taglio è il solito polliniano razionalismo pieno di fuoco.

Detto questo passiamo al pezzo. Come faceva Beethoven ad immaginare tali e tante meraviglie pianistiche per quelle carrette che erano i pianoforti della sua epoca, resta un mistero. Anche questa visionarietà, l'immaginare le possibilità di uno strumento nel futuro, fa parte del corredo dei grandi. Certo, gli Steinway attuali aiutano molto a ricreare quello che era nella mente di Beethoven.

Pestelli racconta un simpatico aneddoto a proposito della composizione di questa sonata: pare che Beethoven, tornato dalla consueta passeggiata (mmm...queste passeggiate regolari mi ricordano Kant, morto proprio in quel 1804 in cui fu composta la sonata...) in preda al furore compositivo che bolliva e ribolliva - era il finale dell'Appassionata, appunto - avesse lasciato il povero allievo che lo aspettava per più di un'ora in disparte, per poi congedarlo con un: "Oggi non c'è lezione, ho ancora molto da lavorare." E dice bene il nostro caro Pestelli più oltre: "In quel borbottare indecifrabile, dove non contano più le singole note e dove non c'è disegno, ma conta l'effetto d'insieme, il tono e il colore, si può dire che tramonti l'idea classica della musica come "cosa bella" e sia incominciata la musica romantica e moderna: intesa come qualcosa che ti viene incontro senza un tema ben raffigurato, che significa senza essere cantabile, solubile in canto, ma solo depositata e ingranata nel suono artificiale dello strumento."

Bella responsabilità addossata a questo pezzo. Ma Beethoven ha le spalle larghe e regge questo ed altro...

domenica 17 gennaio 2010

Igor Stravinskij,
Petruška

Possiamo solo ipotizzare l'emozione sconvolgente provata dai primi spettatori di Petruška nel 1911. Sebbene si fosse a Parigi, città assolutamente all'avanguardia, tutto quello che andava per la maggiore all'epoca era così diverso, così evenescente e impalpabile (pensiamo a Debussy e a Ravel) o languidamente sentimentale (pensiamo a certo Puccini) che non possiamo non essere d'accordo con Pestelli: "in un'Europa immersa in Wagner, Strauss e Debussy, l'urto con quella musica era stato frontale." Sì, una specie di incidente d'auto, nel quale l'Ottocento era morto e il Novecento si era rinforzato le ossa.

Per quanto spesso in cartellone nelle stagioni concertistiche come classico del Novecento, tutto sommato di abbastanza facile comprensione (l'ho ascoltato di recente a Santa Cecilia il 27 aprile scorso, direttore Ingo Metzmacher; e fu una serata che ricordo con particolare affetto perchè segnò la riconciliazione con una persona con cui avevo un conto in sospeso e che incontrai lì per caso: misteri della musica...) Petruška si trova poco frequentemente nelle stagioni di balletto. E' un peccato perchè temo se ne perda la sua dimensione più autentica; questa è una musica nata per dei movimenti, che vuole essere vestita di costumi, che vuole agire una storia patetica e commovente: il povero burattino, inconsapevole di aprire un'epoca, innamorato senza speranza della sua algida ballerina.

La brillante introduzione a questo balletto ascoltata all'inizio del 2009 in un corso di Franco Piperno alla Sapienza, mi ha dato l'avvio per una serie di riflessioni che ho sviluppato in una relazione di Dottorato: il burattino di Strawinskij è il capostipite di quegli automi o robot che cominciano a popolare l'immaginario collettivo degli artisti del Novecento, cambiando presto di segno la loro presenza. Il perdente Petruška diventerà presto, attraverso la lente esaltatrice del futurismo di Marinetti, il vincente Bululù in un romanzo di Bontempelli, Eva ultima (1923). Positivo e vincente al punto che la protagonista femminile se ne innamorerà, respingendo il complicato uomo in carne ed ossa che non riesce a comprendere.

In questa pigra domenica di gennaio, fredda al punto che starsene a letto è più che piacevole, ascolto dal mio I-Pod una rimasterizzazione della versione originale diretta dallo stesso Stravinskij, alla testa della Columbia Symphony Orchestra. E sono passati quasi 100 anni dalla fatidica prima allo Chatelet di Parigi...

P.S. Qui è possibile vedere un pezzetto del balletto: molto televisivo ma piacevole; sulla destra poi trovate le altre scene, sono 4 in tutto.

venerdì 15 gennaio 2010

Giovanni Pierluigi da Palestrina,
Messe

Dice bene Pestelli: "Palestrina è difficile; per cominciare a capirlo la cosa migliore sarebbe entrare in un coro, anche amatoriale, e provare a cantarlo." Però è anche vero che mettere un semplice CD con le sue musiche nello stereo fa diventare immediatamente la tua stanza una cattedrale cattolica a 5 navate.

Ricordavo che la tomba di Palestrina fosse in San Lorenzo in Lucina e avrei giurato di essermi fermata a dedicargli un pensiero proprio lì, casuale scoperta in uno dei miei giri da turista a Roma. Invece, facendo un po' di ricerche oggi, pare che il "principe della musica" fu seppellito nel 1594 in San Pietro, ma in una tomba comune. Chissà, forse quella di San Lorenzo era solo una lapide commemorativa o forse lo confondo con qualche altro compositore. Un piccolo giallo a cui andrò in fondo prima o poi (ossia la prossima volta che ripasso da quelle parti...).

Per cantarlo, Palestrina lo si è anche cantato, negli anni dell'università in cui facevo parte di un coro che si dedicava alla musica rinascimentale; che bei pomeriggi d'inverno passati nell'aula di Storia della Musica alla Sapienza, sporca e squallida nè più nè meno di adesso, che si riempiva a poco a poco di così tanta Bellezza attraverso le nostre voci... Piccoli miracoli che anche l'uomo sa fare.

Ascolto un CD dei Tallis Scholars diretti da Peter Phillips; contiene le messe Assumpta est Maria e Sicut lilium. E in questo venerdì sera si insinua pian piano una dimensione di angelica serenità.

giovedì 14 gennaio 2010

Giuseppe Verdi,
Macbeth

"Quest'opera [...] ti mette davanti Verdi faccia a faccia: un genio ancora barbaro, ma genio fino alla punta dei capelli." E' sempre Pestelli che parla. Vogliamo metterci che il 1847, anno della prima rappresentazione, era solo ad un soffio da quel '48 "primavera dei popoli" che sconvolse l'Europa? Certe cose i geni le sentono e particolarmente geni come Verdi che alla politica un occhio ce lo buttava...

Non ricordo la circostanza del mio primo ascolto di Macbeth ma ricordo l'impressione di un commento a caldo di un mio amico veronese dei vent'anni - purtroppo perso per strada come altri - "Ah, Macbeth! Il coro delle streghe, che meraviglia..." che mi aveva sempre incuriosito di andarlo a sentire. Quel commento si confonde con la luce dei suoi occhi e con l'Arena dove saremmo andati più tardi (per Bohéme?).

Tanto per smitizzare, oggi mi sono concessa un ascolto dissacrante: ho messo su l'opera mentre pulivo i vetri delle mie 7 finestre. In realtà sono arrivata a 3; poi ho lasciato perdere e mi sono messa ad ascoltare, perchè Verdi, che non si è lasciato scomporre, continuava a lanciarmi addosso tutti i suoi cori e scoppi dell'orchestra, streghe, Lady Macbeth e cavalieri pusillanimi compresi.

Scavando nei ricordi, utilizzai Macbeth in più di un seminario che tenni per le scuole superiori nel 1998 e nel 1999, fresca di laurea. Tentando di colmare l'atavica lacuna musicale delle nostre scuole, affiancavo l'insegnante di letteratura con una serie di ascolti e presentazioni musicali che si riagganciavano al programma di italiano. Ai ragazzi Verdi piacque e ne rimasero paradossalmente più colpiti quelli dell'Istituto industriale che quelli del Liceo. Ah, le mie prime prove didattiche...mi sembrano perse nella notte dei tempi...

Ascolto adesso (in un CD copiato, confesso! ma quando me lo feci passare da un cara amica musicologa, 12 anni, fa ero povera...) proprio la versione citata da Pestelli, Cappuccilli/Ghiaurov/Verrett diretti da Abbado con l'orchestra della Scala. In effetti, la perfezione...

mercoledì 13 gennaio 2010

Maurice Ravel,
Trio in la minore

L'inizio del primo movimento è un invito sommesso e ineludibile: una volta ascoltato non lo dimentichi mai più. Pestelli dice che il modo migliore per conoscere questo Trio è "ascoltarlo dopo una fiera batosta, oppure storditi di stanchezza, con la testa che ronza a vuoto, gli occhi pesti e i nervi ancora tutti drizzati e indoloriti"; così facendo "la nostra sensibilità si riempie di un'essenza nuova e preziosa che di colpo fa scomparire ogni contingenza oscura, materiale, vergognosa." E' una musica capace di rendere leggero e impalpabile ogni peso del cuore, una porta per passare in un universo retto da leggi diverse. Io sto ascoltando la rimasterizzazione di un'incisione storica, il Trio di Bolzano (Montanari, Carpi, Amadori) del 1954, piena di sentimento.

Nel 1914 Ravel ha quasi 40 anni. Ha già scritto molte cose importanti e ha cercato un linguaggio che possa essere espressione del nuovo, come altri suoi maestri e colleghi, Fauré, Debussy. Ma le forme, le forme della tradizione incombono; non possono essere perennemente eluse, reclamano un tributo. E Ravel scrive un Trio che è davvero un trio, in quattro movimenti, il primo e l'ultimo dei quali in forma-sonata, come prescrivono le regole di scuola. Ma che è anche (o soprattutto?) altro: è sogno, evanescente e impalpabile simbolo, e unisce idealmente musica e poesia, passato e presente, così come vogliono i simbolisti. Il secondo movimento si intitola infatti Pantoum, una forma poetica usata da Baudelaire in Harmonie du Soir, una delle più note poesie dei Fleurs du Mal; il terzo movimento è una Passacaglia, forma di danza barocca che si basa su un tema, un tenor, enunciato una prima volta (qui dal pianoforte) e poi sempre ripetuto come base su cui si sviluppa tutto il resto.

Nulla meglio delle parole di Baudelaire possono rendere il senso di questa musica. Eccone un frammento:

Le violon frémit comme un coeur qu'on afflige,
Un coeur tendre, qui hait le néant vaste et noir !
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir ;
Le soleil s'est noyé dans son sang qui se fige.

P.S. Mi dicono che questo Trio sia la colonna sonora di Un cuore in inverno, film francese con Daniel Auteuil e Emmannuel Béart, diretto da Claude Sautet nel 1992. Sarà la buona occasione per vederlo...

martedì 12 gennaio 2010

Gustav Mahler,
Das Lied von der Erde



Oggi niente musica registrata ma un vero concerto. Orchestra di Santa Cecilia al nuovo Auditorio, Antonio Pappano direttore e solisti Anna Larsson e Simon O'Neill. L'eleganza di Pappano, la sua energia e fluidità, vanno a nozze con una partitura così profonda, contemporaneamente sommessa e grandiosa. Ottima prova della Larsson, la cui interpretazione partecipe e intensa ha messo in luce le finezze della partitura e ha reso in maniera convincente il colore del brano. O'Neill: francamente, dalla mia posizione in platea sul lato sinistro, non l'ho sentito; l'orchestra copriva quasi del tutto la sua performance, che è rimasta un punto interrogativo.

Il valore aggiunto di questo concerto (la cui novità era compresa nella prima parte: la nuova opera di Hans Werner Henze, Opfgang, di cui però non parlo in qusto blog, riservato esclusivamente e un po' maniacalmente ai capolavori di Pestelli) è stato l'incontro con 4 vecchi amici, tutti musicologi o musicofili, 3 dei quali musicisti e 1 anche compositore. Scambiare le impressioni nell'intervallo e sentire che non c'è nemmeno bisogno di tante parole per capirsi è un aspetto impagabile dell'andare ai concerti, che raramente purtroppo mi capita di godere. Andare ai concerti, tra lavoro e impegni di famiglia è un lusso per molti e spesso anche per me...

Ma torniamo al Canto della Terra. Pestelli, aforistico come al solito, chiude il suo commento così: "Mahler [...] canta la morte, ma nell'intensità del canto celebra la terra e la vita." Il 1907 non era stato un buon anno per il nostro compositore: la sua adorata figlioletta Putzerl era morta di difterite a soli 5 anni, gli avevano diagnosticato una grave patologia al cuore e, dopo lunghi contrasti, era stato costretto a dare le dimissioni dalla Hofoper di Vienna, di cui era stato direttore artistico. Durante quell'estate si rifugia nella casetta di legno della foto qui sopra, costruita accanto alla casa dove trascorre le vacanze a Toblach (ora Dobbiaco), carta da musica e un libro di poesie. Lo ha ricevuto da un amico, il dottor Theobald Pollack, che ne è assolutamente entusiasta e si tratta di una traduzione, alquanto libera, di una serie di poesie cinesi, pubblicate proprio in quell'anno. Mahler ne sente forte la suggestione, sulla scia della moda orientaleggiante che è diffusa all'inizio del secolo in Europa e decide di scrivere un insieme di lieder che sono anche una specie di sinfonia, talmente sono consequenziali e connessi tra loro. I brani sono sei e a cantarli si alternano un contralto e un tenore; i temi sono la summa della nostra esistenza: la sofferenza, il desiderio, la solitudine, l'ebbrezza, il sogno, il rimpianto, l'amicizia, il mistero della natura.

Il cuore di Gustav Mahler reggerà ancora per qualche anno, fino al 1911. La sua musica è viva anche oggi, fresca e leggera come solo i classici sanno essere. Mi piace chiudere con questi versi, tratti dal primo lied, Il brindisi del dolore della terra, per ricordarci quanto siamo piccoli eppure grandi:

Azzurro eterno è il firmamento, e la terra
è destinata a lungo a stare immobile, e a rifiorire in primavera.
Ma tu, uomo, ancora vivrai?

domenica 10 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Sinfonia n.41 KV 551 "Jupiter"

Che c'è di meglio che cominciare la giornata con la Jupiter di Mozart! Una sinfonia che ha come sottotitolo il nome del primo tra gli dei, Giove, e che si sviluppa nella regale tonalità di do maggiore, non può che dare una piega positiva alle ore successive, persino se si tratta di un lunedì, come oggi.

Scherzi a parte, mi accorgo che non ho mai ascoltato con attenzione e dall'inizio alla fine questa celeberrima sinfonia, anche lei saccheggiata da spot e jingle, anche lei incorruttibile come il platino nonostante gli oltraggi. La compattezza e la chiarezza di pensiero, unite alla mozartiana gioia di vivere sono irresistibili, in particolar modo nel IV movimento, Molto Allegro. E specialmente in questa incisione dei Berliner Philarmoniker diretti da Karajan, registrazione del 1971, che sto ascoltando in questo momento. Come credere che sia stata scritta in 6 settimane, tra il giugno e il luglio del 1788 (e tra un anno la Rivoluzione francese; ogni volta che penso alle coordinate storiche di questi capolavori mi vengono i brividi...)?

Pestelli preferisce un'incisione di Karajan precedente, con l'orchestra della Rai di Torino e trova che le successive di Karajan con i Berliner siano troppo livellate alla ricerca del "bel suono" e meno capaci di comunicare "una vita palpitante, dove anche le ombre, le tenerezze momentanee, le sottolinature popolari servono a dare più verità." Mi fido di Pestelli ma, ahimè, quell'edizione non la trovo. Ne ho ancora un'altra però, Leonard Bernstein con i Wiener Philarmoniker, 1984. Forse è meno viva della precedente, meno energizzante e dunque ben venga il Karajan precedente. Ma sono pronta a ricredermi se qualcuno mi offrisse l'edizione indicata dal nostro Giorgio...

Modest Musorgskij,
Quadri di un'esposizione

Ho ascoltato talmente tante volte per radio o in concerto questa musica, che ero assolutamente convinta di averla in casa. E invece no, cercando e ricercando non l'ho proprio trovata e così ho preso su I-Tunes la versione di Ivo Pogorelich, un'incisione Deutsche Grammophone del 1987, se non ho letto male.

Pestelli dice che questa è una di quelle musiche che si possono consigliare anche a chi non conosce la musica ma vorrebbe tanto "capirla", per rispondere alla domanda-tormentone che tutti i musicisti e musicologi si sentono fare in continuazione dai neofiti della musica classica (e sono legioni di volenterosi!) che presto poi depongono le armi, forse quando scoprono che non c'è una serie di brani da ascoltare coscienziosamente, uno dopo l'altro per ottenere la chiave di volta. Perchè apprendere la musica è una pratica lunga e mai prestabilita, che si svolge parallelamente alla nostra capacità di comprendere noi stessi e la vita che ci circonda.

Ad ogni modo, ricordo che anche io devo aver fatto inconsciamente la stessa osservazione di Pestelli se, alcuni anni fa, scelsi proprio questo brano da regalare ad una cara signora, esperta d'arte ma non di musica, che aveva avuto da poco un brutto lutto. Chissà se le avrà dato un qualche sollievo...

Un altro lutto si intreccia con questa composizione: i quadri descritti dalla musica di Musorgskij sono quelli del pittore e architetto Victor Alexandrovic Hartman, morto a 39 anni e carissimo amico del compositore. Nel 1874, un anno dopo la morte del pittore, venne allestita una mostra con le sue opere e Musorgskij decise di scrivere un'opera musicale che potesse ricordare l'impressione forte di quei quadri, che ritraevano per lo più scene di vita quotidiana russa. Ne venne fuori un brano assolutamente sperimentale nella forma - una serie di pezzi, i quadri, legati dalle ripetute Promenades, ossia gli spostamenti del visitatore da un quadro all'altro - e nel contenuto musicale, già nettamente novecentesco.

Se penso a quanto di straordinariamente moderno hanno regalato al Novecento gli artisti russi da Musorgskij a Strawinskij, da Shostakovich a Rachmaninov a Prokovev, per non parlare dei grandi interpreti come Horowitz, pur vivendo in un paese che era complessivamente ancora calato in un anacronistico medioevo fino al 1917 e poi sconvolto dalla grande rivoluzione, non posso fare a meno di stupirmi profondamente e di essere grata.

L'incisione che sto ascoltando dimostra una grande misura e una profonda e attenta comprensione del testo. Il modo di suonare di Pogorelich è quasi assorto, mai inutilmente arrogante (come in tanti accordi delle Promenades si è tentati di fare), governato da misura e essenzialità. Anche nei tempi: giustamente ampi - questo è un pezzo di bravura ma non ci interessano i funamboli della tastiera - ma non dispersivi. E' come se Pogorelich guardasse tutto dall'alto. E noi con lui.

sabato 9 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Le nozze di Figaro

Confesso che Le nozze di Figaro non le ho ascoltate integralmente oggi; mi sono servita di una selezione di 8 tracks da un cofanetto pubblicato da Repubblica nel 2006, in occasione del 250° anniversario della nascita, con 100 capolavori mozartiani. L'incisione è quella di Muti con i Wiener Philarmoniker, pubblicata dalla EMI nel 1987. Tempi alacri, soprattutto per l'Overture, ma godibile in fin dei conti.

Non posso dire di non aver avuto un'idea dell'opera nel suo complesso ascoltando la celeberrima Overture e alcune tra le maggiori arie e duetti, anche se un certo appetito è rimasto e della torta di cui ci è piaciuta una fetta, vorremmo anche il resto... Ancora le vicende di Figaro, il barbiere di Siviglia, e questa volta è lui che si sposa, tra intrighi ed equivoci da commedia buffa. Pestelli dice che la caratteristica di quest'opera è il suo senso di "sospensione": "prima Mozart è una cosa sola con i suoi personaggi, si diverte e si scalda con loro, poi a un tratto la musica trattiene il suo passo su una medesima armonia e l'autore sembra appartarsi a contemplare le sue creature, come avvertisse l'inutilità di tutto quell'indaffararsi e intrigare."

L'opera è del 1786, Mozart ha appena avuto il terzo figlio e tra tre anni scoppierà la Rivoluzione francese. Nei serrati qattro atti si mettono in scena le vicende amorose, strettamente intrecciate, di varie coppie appartenenti a diverse classi sociali. C'è un bel libro di Massimo Mila, che non ho ancora avuto la ventura di leggere (e forse questa potrebbe essere l'occasione giusta...) che si intitola Lettura delle Nozze di Figaro. Mozart e la ricerca della felicità. La ricerca della felicità, dunque, sarebbe il senso ultimo di questa opera mozartiana, che abdica alle rivendicazioni sociali del testo di Beaumarchais da cui è tratta, per parlarci di un qualcosa di più immediato e comprensibile, qualcosa a cui tutti aspiriamo. E chissà che ascoltarla non ci renda un passo più vicini al raggiungerla...

venerdì 8 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.5 op.67

Soprannominata Sinfonia del Destino, la Quinta è la sinfonia di Beethoven che tutti conoscono, almeno in quelle 4 note di attacco (sol-sol-sol-mi) che esplodono come una cannonata e si ripropongono poi per tutto il primo movimento, scariche di adrenalina in dosi differenziate.

Pestelli dice giustamente che ascoltare la Quinta "è un po' come mettersi un leone in casa" e in effetti non è un ascolto da cui si possa uscire indenni. In quattro anni di gestazione, dal 1804 al 1808, nel centro della sua produzione, Beethoven ci ha regalato anche questo. E non è un caso che l'attacco di questa Sinfonia fosse la "sigla" delle trasmissioni di Radio Londra durante la seconda guerra mondiale.

Ascolto anche qui, come per la Nona, la versione di Arturo Toscanini alla testa della NBC Symphony Orchestra, registrata il 22 marzo 1952 alla Carnegie Hall. Deve esere una registrazione live perchè alla fine del primo tempo si sente qualche fruscio e qualche timido movimento sulle poltrone; si avverte però anche lo stato di letterale paralisi in cui Toscanini ha scaraventato il pubblico, con la sua direzione da dittatore musicale. Lui sì, un domatore di leoni.

giovedì 7 gennaio 2010

Franz Schubert,
Quintetto per archi D.956

Pestelli dice a proposito di Schubert e di questo quintetto che "per tenere compagnia ci vuole qualcuno che non ci incalzi troppo da vicino, vociferando di una meta lontana; meglio qualcuno che ami il mondo così com'è e che non voglia andare da nessuna parte; e non perchè trovi tutto bello, ma perchè sa che per stare meglio è inutile andare in qualunque altro posto." Non so se Schubert non volesse andare da nessuna altra parte e amasse il mondo così com'era. Di certo la sua breve vita - morì a 31 anni - non fu nè facile, nè tranquilla, oberata da problemi economici e di salute. Si concluse senza clamore nel 1828, quando una febbre tifoidea contratta durante il viaggio compiuto fino ad Eisenstadt, per visitare - che fatalità! - la tomba di Haydn, lo uccise.

Ogni volta che penso a Schubert mi vengono i mente i suoi occhialetti tondi, quelli con cui è rappresentato nei pochi ritratti che ci sono rimasti; mi vengono in mente le serate piene di musica nei salotti borghesi di Vienna, in cui dava il meglio di se stesso dimenticando le difficoltà quotidiane. Ascoltando questo quintetto nell'incisione del Borodin Quartet con Misha Milman al secondo violoncello (non eccezionale, devo dire, con qualche sbavatura e poco sale; peccato perchè il Borodin in genere è eccellente) mi invade una sommessa malinconia, che è il colore di tante sue opere.

Mentre Schubert componeva questo brano nel 1828, pochi mesi prima di morire, Giacomo Leopardi era a Pisa e componeva A Silvia, il canto della giovinezza perduta (mai vissuta?), del rimpianto di ciò che si è desiderato e sognato e che non è mai arrivato, il canto della disillusione dell'età matura di fronte all'ignara confidenza della giovinezza. Tra questi due grandi, vissuti negli stessi anni, ci sono tante affinità: morti giovani entrambi, una vita travagliata ma portata avanti con scrificio e dignità, una malinconia che non è resa agli eventi ma lucido e amorevole sguardo alla vita. Nell'immagine della mano operosa di Silvia che lavora al telaio accompagnata dal suo canto giovanile penso ci sia molto del senso di questo quintetto schubertiano.

"Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno."

P.S. Il sito della Biblioteca Nazionale di Napoli ha messo on line il manoscritto di A Silvia: nella barra a sinistra trovate le diverse carte, anche in versione ad alta risoluzione. Godetevi la calligrafia del nostro poeta: è poesia anche quella...

mercoledì 6 gennaio 2010

Johann Sebastian Bach,
Concerti per uno e due violini
BWV 1041-1042-1043

Se pensiamo a Johann Sebastian Bach (il mio amatissimo Bach! finalmente è arrivato tra i capolavori di Pestelli...) ce lo immaginiamo con la sua bianca parruccona ricciolosa, solennemente intento a suonare possentemente l'organo. E in effetti le tastiere, organo, clavicembalo e clavicordo furono i suoi strumenti d'elezione ma fu il violino a procurargli il primo impiego nell'orchestra di corte a Weimar nel 1703 e più avanti nel 1708. Bach suonava magistralmente violino e viola: durante il lungo viaggio verso Lubecca, intrapreso a piedi nel 1705 per andare a sentire Buxtehude - un organista, guardacaso - fu proprio il violino, suonato nelle locande, a fargli sbarcare il lunario. Insomma, se l'organo era lo strumento del cuore il violino era quello del portafogli - e il divino ci permetta l'irriverenza...

Nel 1717, anno in cui questi concerti sono composti, Bach si licenzia burrascosamente dal duca di Weimar (che prova anche ad arrestarlo per non farlo andare via; ma si trattò di puntiglio e non di amore per la musica) e passa al servizio di Leopold von Köthen: anche qui è il violino a dargli lavoro e libertà e questi tre sono tra i pochi superstiti dei numerosi concerti che Bach scrisse per la corte di Köthen, dove Leopold stipendiava ottimi solisti.

Pestelli dice che nel BWV 1043, Bach "dimentica il suo duca o principe, gli obblighi e i contratti di prestazione, e si perde (o si trova) nell'insguire solo la sua immensa fantasia." Io trovo che Bach segua sempre la sua fantasia o meglio la sua idea genialmente sistematica. La sua statura artistica e morale è sempre così al di sopra di tutto ciò che lo circonda, che sembra sempre camminare e pensare a due metri da terra e non essere toccato dalle beghe e dai limiti che il suo tempo e la sua condizione gli propongono.

All'epoca di Bach era prassi didattica trascrivere i concerti dei musicisti che andavano per la maggiore, per impararne i segreti e il nostro copiò diligentemente kilometri e kilometri di musica italiana, l'amatissimo Vivaldi, Corelli, Albinoni, Marcello compiendo così virtualmente quel viaggio in Italia che non ebbe mai l'occasione di fare. Quanto di italiano suona in questi concerti: energia, misura, irruenza, senso del canto e della melodia. E al tempo stesso quanto di tedesco: struttura, sviluppo sistematico, quadratura ed equilibrio della strumentazione.

Ho ascoltato e riascoltato forse per centinaia di volte questi concerti da ragazzina, durante gli anni di Conservatorio, sdraiata su un tappeto, da un vecchio LP in cui il solista era Isaac Stern, se non sbaglio. Quella posizione inconsueta mi permetteva di sentire quanto questa musica si apra e si espanda in tutte le direzioni, come un disegno di Escher.

Ascolto ora la versione di Anne-Sophie Mutter con la English Chamber Orchestra diretta da Salvatore Accardo. Ma come spesso mi accade per Bach, mi dimentico di ascoltare i suoni e vedo solo l'idea che è dentro questa musica: un'ideale di armonia cosmica in cui ogni cosa è al suo posto e dove il movimento coincide con una superiore immobilità, come quel Motore immobile di cui parlava Aristotele.

lunedì 4 gennaio 2010

Béla Bartok,
Concerto n.3 per pf. e orchestra Sz119

Sono d'accordo con Pestelli che la musica del Novecento, anche quello cosiddetto storico, faccia paura a molti ma è vero che questo concerto "non deve far paura a nessuno, è un'opera che parla a tutti direttamente, come sanno fare Schumann o Chopin; e tuttavia è musica del nostro tempo, segnata dalle sue crisi, dalle sue aspirazioni e dalle sue tare, ma riscattate in una luce di bellezza superiore a qualunque imitazione."

1945. Bartok si è rifugiato negli Stati Uniti per scampare alla seconda guerra mondiale che distrugge la sua patria, l'Ungheria, e l'Europa. Un senso di estraneità lo pervade, la nostalgia forse, la disperazione del futuro. Mentre fuori la guerra sconvolge il mondo (e il '45 è il fatidico anno dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki), la leucemia lo corrode dall'interno. Accanto a sè la moglie, Ditta Pasztory, un'ottima pianista anche lei; resterà sola presto, tra pochi mesi. Bartok scrive questo concerto per lei, perchè possa consolarsi suonandolo quando lui non ci sarà più; e lo riempie di gioia e di bellezza, di energia e di tenerezza, attingendo a tutti i suoi sentimenti. Ecco perchè questo brano parla così chiaramente anche a noi, come dice Pestelli. Io lo immagino come un'ultima lettera d'amore, a Ditta sì, certo, ma anche a noi, che la leggiamo a decenni di distanza e siamo invitati a riflettere su senso (e sul non-senso) delle cose.

Ascolto la versione di Andras Schiff, diretto da Ivan Fisher con la Budapest Festival Orchestra, probabilmente un'incisione del 1996. Elegante, decisa, fermamente energica nel primo e nel terzo movimento ma anche delicatamente e malinconicamente dolce nel secondo, per cui è indicato Adagio religioso. Strano l'invito alla preghiera da parte di un musicista laico, particolarmente laico. O forse no...

Franz Joseph Haydn,
La creazione

Avevo ascoltato questo oratorio tanti anni fa a Santa Cecilia, si era ancora all'Auditorio Pio, e ne avevo un ricordo ormai nebuloso ma ricco di gioia e di stupore. Ieri ho scartabellato tra i vecchi programmi di sala che conservo nei meandri della mia libreria e, praticamente al primo colpo, impolverato ma decisamente intatto, ho trovato il fascicoletto, con la data del concerto (29 marzo 1998!) e un bel saggio di Bruno Cagli che mi sono goduta come lettura della buonanotte.

Vienna 1798 è la data della prima esecuzione, quasi al centro esatto tra il fatidico 1790, anno in cui Haydn, ormai famosissimo, lascia i suoi protettori Esterhazy e si dedica alla musica da libero professionista e il 1809, anno della sua morte. Venti di tempesta agitano l'Europa: la Rivoluzione francese inizia nel 1789 e a seguire la folgorante parabola napoleonica che sconquassa il continente per ripiegarsi poi bruscamente nel congresso di Vienna (ancora Vienna!) del 1814. In tutto questo, un musicista ormai anziano - perchè nel Settecento a 58 anni si era anziani - e all'apice della sua fama al punto che può permettersi di comporre ciò che vuole, si immerge in uno dei misteri che avvolgono l'umanità, la creazione, e si sforza di farne una musica che resti per sempre, così come il suo soggetto. E in questo lungo sforzo creativo trova e comunica gioia e stupore, fiducia e reverenza.

Dice bene Pestelli: "Haydn è il vero cantore dell'illuminismo religioso rappresentato dalla poesia di Klopstock: dimenticato è il dramma luterano del peccato originale e della corruzione; Dio è buono non perchè è misericordioso, ma perchè ha posto l'uomo al centro dell'universo, esaltandolo proprio nel suo essere creatura." Conciliare i due opposti, illuminismo e religione, è qualcosa che può riuscire solo ai grandi (Manzoni?) e Haydn ci riesce: lo stupore con cui dipinge di suoni i sei giorni della creazione, l'apparire della luce dal buio caos, il materializzarsi di piante e animali e infine l'apparire dell'uomo nel suo essere maschio e femmina, Adamo ed Eva, non sono in contrasto con la fiducia in un luminoso futuro il cui accento non è posto sulla sofferenza ma sulla gioia. Quella gioia che lui stesso provava nella preghiera, come confida in una lettera (forse?, è nel saggio di Cagli):

"Ho pregato Dio non come un povero peccatore disperato, ma con calma e sommessamente. Io sento che un Dio eterno avrebbe sicuramente pietà delle sue creature mortali, e perdonerebbe alla polvere di essere polvere. Questi pensieri mi hanno rassicurato. Ho provato una gioia sincera e una grande fiducia; volendo esprimere il contenuto della preghiera non ho potuto soffocare la gioia, ma ho lasciato sfogare i miei sentimenti di felicità e sul Miserere ho indicato Allegro."

Ascolto la stessa edizione commentata da Pestelli, Bernstein dirige Orchestra e Coro della Bayerischen Rundfunk, un'incisione del 1987, acquistata stamattina da Feltrinelli, affrontando la pioggerella sottile che bagna Roma e che forse appena fuori del raccordo è già neve. Bizzarra e grandiosa colonna sonora, La Creazione mi accompagnerà oggi, diffondendosi persistente tra le stanze della mia casa.

P.S. Un consiglio di ascolto: se avete poco tempo, ascoltate solo le parti corali (e naturalmente il caos iniziale). Resterete stupiti della loro modernità. E se volete seguire il testo, provate a scaricare la partitura da questo link di International Music Score Library Project(IMSLP). In questa pagina ci sono anche i download del manoscritto.

domenica 3 gennaio 2010

Fryderyk Chopin,
Andante spianato e Grande polacca brillante op.22

Primo brano mancante nella mia discoteca casalinga (chissà come mai...). Mi rivolgo con fiducia ad I-Tunes, certa di trovarvi più edizioni e di cavarmela con pochi euro. In effetti ci sono più di una decina di pianisti che si cimentano con il celeberrimo brano: dai mostri sacri Rubinstein e Argerich a più giovani pianisti come Lortie e Biret. Vi insegno un trucco, scoperto a mie spese oggi: quando cercate un brano che, come questo è suddiviso in due track, quei furboni di I-Tunes cercano di metterne uno a pagamento a 99 centesimi e l'altro in omaggio all'album che li contiene, in modo che per completare l'ascolto dovrete spendere 10 euro o più. Vi consiglio di ordinare in ordine alfabetico per interprete la lista che vi offre il motore di ricerca, di verificare bene cosa è a pagamento e cosa in "omaggio" e di scegliere i due brani facendo attenzione che appartengano allo stesso CD (non è superflua questa raccomandazione, potrebbero pubblicare un simpatico "spezzato", sì proprio come i tailleur, con un brano da un'incisione e l'altro da un'altra).

Bene, detto questo, vediamo che cosa sono riuscita a portare a casa con 5 euro: l'Andante di Marta Argerich, Andante e Polacca (ma da due incisioni diverse) di Rubinstein e, finalmente, Andante e Polacca di Louis Lortie da una stessa incisione. A proposito di Lortie, vi segnalo il suo sito (http://www.louislortie.com/): ci sono sezioni dedicate ad alcuni compositori con interessantissimi video che propongono osservazioni su interpretazione e tecnica. Inutile dire che il primo è Chopin (per altro in buona compagnia tra Beethoven, Wagner/Liszt, Mozart, Ravel e Bach).

Per questo brano così intimo e raffinato ho tentato un ascolto estremo: in autobus, cuffie dell'I-Pod nelle orecchie, andando verso il centro in una giornata di mezzo sole. L'effetto è stato incredibile e ha agito sullo spazio e sul tempo, funzionando come una lente d'ingrandimento e un rallentatore e costringendomi a soffermarmi su tutti i particolari dei volti delle persone che erano con me nella vettura, a coglierne l'elasticità dei movimenti, la bellezza, l'armonia. Un'emozione che vi suggerisco di tentare.

Ma veniamo alle incisioni. Se Lortie ti guida attraverso i fruscii di seta e broccato di un elegante salotto parigino, di quelli di vecchia nobiltà in cui la raffinatezza è parte integrante dell'ambiente e non deve essere nè cercata nè ostentata, Rubinstein ti fa entrare in una cattedrale gotica cattolica, con quel tanto di dramma interiore che non travalica i limiti del pudore ma sta per farlo. Non saprei dire se una mi piace più dell'altra (a parte il fatto che le due incisioni diverse non rendono giustizia al genio di Rubinstein e forse non è il modo migliore di ascoltare quello che lui ha da dire riguardo a questo pezzo): come spesso capita per i classici, ogni interprete te ne comunica una possibile lettura e in fondo moltiplica il piacere dell'ascolto.

Pestelli dice che questo brano "non è solo un ritratto di Chopin, è un ritratto del pianista romantico in assoluto, capace di portarsi dietro una folla con la pressione di un accento, l'attesa di un rubato, la grazia di un fraseggio." Condivido. E mi percorre un brivido pensando che la Nona è di meno di dieci anni precedente e che pochi mesi dopo l'unica esecuzione pubblica di questo brano fatta da Chopin , Vincenzo Bellini sarebbe morto e con lui forse tutta un'epoca di "belcanto", di cui questo brano chopiniano è, in tanti momenti, una tra le più riuscite traduzioni pianistiche.

P.S. Ancora una suggestione, questa volta cinematografica. Chi ha visto quel capolavoro che è Il Pianista di Roman Polanski, Palma d'Oro a Cannes 2002, ricorderà che questa è una delle musiche che il protagonista suona alla fine del film, finito l'orrore della guerra. Senza ulteriori parole.

sabato 2 gennaio 2010

Gioachino Rossini,
Il Barbiere di Siviglia

Un patio di Siviglia, che invita a fare una pausa in compagnia.

Quest'opera è una ragazzina di 194 anni. I migliori critici ne sono stati i miei giovani alunni di una classe di qualche anno fa, era il 2004: sentirli canticchiare i motivi dell'Overture o di alcune delle arie ascoltate insieme, mentre correvano ad avventarsi sui panini della ricreazione, è stata una delle migliori soddisfazioni della mia carriera di insegnante. Tenerli sulle spine riguardo alla fine della storia, che avevano bevuto lezione dopo lezione come una appassionante telenovela, è stata invece una piccola cattiveria da adulta.

D'altronde è proprio vero quello che dice Pestelli: quest'opera è pervasa da "un'allegria biologica tanto intensa da divenire affermazione (morale?) di fiducia nella vita." L'allegria e la vitalità di cui fu pieno un viaggio in Andalusia del dicembre 2006, condiviso con una carissima amica. Ascoltata per ore e ore sulle strade ampie e scorrevolissime che legano Malaga a Granada, Granada a Cordova, Cordova a Siviglia, finalmente, fu la nostra burlesca colonna sonora. Alberi di arance carichi di frutti maturi per le strade, patii colorati e pieni di fiori, l'Alcazar solenne e magnifico, la Giralda vertiginosa e le sue campane, sulle note di Rossini sembravano strizzarci l'occhio.

L'edizione che sto ascoltando è quella diretta da Alceo Galliera nel 1958 alla testa della Philarmonia Orchestra, la Callas come Rosina, Luigi Alvas come Conte di Almaviva e Tito Gobbi come Figaro. Il CD è un po' rovinato e ho dovuto metterlo nel computer per ascoltarlo senza gli orribili fruscii, pernacchi e rantoli che si erano presentati come ospiti sgraditi alla festa - a proposito, forse se ho davvero intenzione di portare a termine questa impresa, dovrei mettere in cantiere l'acquisto di un impianto stereo nuovo e degno...

Ma nulla davvero riesce a scalfire l'inossidabile energia di questa musica, nemmeno le irriverenze della tecnologia del XXI secolo.