sabato 27 febbraio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.3 op.55 Eroica
214/42

Ascolto super-classico oggi con questa Terza che viene giù dalla bacchetta di Toscanini. E' quello che ci vuole in questo sabato di primavera anticipata, sole smagliante e cielo di Roma azzurro fosforescente che sfoggia il vestito buono. Pestelli parla dell'Eroica come della "pietra angolare di tutto il sinfonismo moderno, monumento perenne all'attività e all'energia umana." E ha ragione, definitivamente. Già dall'esordio, quegli scoppi di accordi che ti mettono sull'attenti, si capisce che Beethoven fa sul serio, se mai avessimo avuto qualche dubbio.

E' noto come questa sinfonia, scritta tra il 1802 e il 1804, fosse dedicata a Napoleone, il grande uomo che sconvolgeva l'Europa e i suoi stanchi regnanti, creando un ordine nuovo. Di lì a poco tutto sarebbe crollato come un castello di carte e ne ebbe sentore di marcio anche Beethoven, già nel dicembre del 1804, quando Napoleone si farà incoronare imperatore. Disgustato, decise di intitolare la Sinfonia "al sovvenire d'un grand'uomo" senza più menzionarlo. Napoleone non deluse solo Beethoven ma anche il nostro Foscolo che dopo Campoformio, anno 1797, si era accorto di che pasta fosse la libertà portata dal Generale: merce di scambio con il più forte, l'Austria in quel caso. Possiamo immaginare la loro delusione, simile a quella di tanti che sperano nei grandi uomini, gli uomini del "fare", gli uomini che salvano e risolvono, per poi ritrovarsi nelle mani di dittatorelli che fanno soprattutto ciò che a loro fa comodo, a danno - occorre dirlo? - di chi in loro aveva scioccamente riposto fiducia. Tant'è e la storia, che ormai non studia più nessuno, pare non insegnare veamente niente agli uomini...

Ad ogni modo, Napoleone o no, questa Sinfonia è proprio bella e noi ce la godiamo con i suoi temi travolgenti, i suoi squilli di trombe, la Marcia funebre e tutto il resto.

venerdì 26 febbraio 2010

Felix Mendelssohn-Bertholdy,
Overture Le Ebridi o La Grotta di Fingal
214/41

La Scozia è un gran bel posto. Ricordo con gran piacere un viaggio nel settembre del 2007, i prati verdissimi e i cieli cangianti, l'odore di salsedine dell'oceano che arriva ai castelli sulla costa, questo senso di vastità accogliente, le cittadine ordinate, le case piene di fiori nei giardinetti davanti all'ingresso, Edimburgo e il panorama che se ne gode dalla fortezza, un mare di tetti con il fiume che è già oceano sullo sfondo. Non mi sono spinta così a nord come fece il giovane Mendelssohn, a visitare la grotta di Fingal, da cui maturò poi l'idea di questa meravigliosa overture da concerto, che fluisce rapida e piena di sentimento per poco più di dieci minuti. Un vero e proprio ritratto musicale che risponde molto anche al ricordo che ho anche io di quelle terre.

Ascolto un CD che avevo in casa, la London Simphony Orchestra diretta da Gabriel Chmura, un'incisione del 1977, fresca e viva. Sembra davvero di sentire il mare che palpita e l'aria salsa che ti investe a raffiche. Bella anche la conclusione, seza inutili strepiti, semplice, come un'onda che si allontana portata dalla marea.

mercoledì 24 febbraio 2010

Fryderyk Chopin,
24 Preludi op. 28, Ballata n. 1 op. 23,
2 Notturni op. 27, 8 Studi dall'op. 25
214/37-40

Concerto di immortali questa sera all'Auditorio, per un solista d'eccezione, Maurizio Pollini. Devo dire che sono una habitué dei suoi concerti e almeno un paio di volte all'anno lo vado ad ascoltare, principalmente a Roma e a Siena. Stasera ci delizierà con un programma interamente chopiniano: e chi meglio di lui può permetterselo in questo anno del bicentenario?

Tutte queste musiche sono piene di ricordi: la lunga frequentazione con i Preludi e con gli Studi negli anni del Conservatorio, i Notturni, due dei quali portati al Diploma e poi lungamete ascoltati e studiati anche dopo, le Ballate mai affrontate ma sempre ascoltate con ammirazione. Chopin è nel cuore dei pianisti l'essenza stessa del proprio strumento e non si finisce mai di scoprirlo e di interpretarlo. Lo si ritrova dopo ogni viaggio verso altri lidi sonori, lo si consulta come un diuturno breviario, lo si affronta come una scalata alpina, fatica e gioia immensa.


Eccomi, tornata dal concerto. Eccellente come al solito, sala gremita (anche se devo dire che il pubblico di Santa Cecilia è il più malaticcio che abbia mai incontrato, colpi di tosse in continuazione, ma se siete così malati state a casa e curatevi!) e un presenza d'eccellenza, il Presidente Napolitano, che ha ascoltato tutto il concerto compresi i tre bis (tutti rigorosamente chopiniani: la "Caduta di Varsavia", una mazurca e uno scherzo) accanto a Cagli in brodo di giuggiole. Durante l'intervallo sono andata a salutarlo e stringendogli a lungo la mano gli ho detto quanto fossi contenta di vederlo lì, visto che è una delle poche personalità istituzionali che partecipano ad eventi culturali. Ridendo mi ha risposto: "Sa, sono 60 anni che partecipo..." Altro che i festini con massaggiatrici con cui si divagano altri personaggi...

martedì 23 febbraio 2010

Richard Wagner,
L'olandese volante 214/36

Primo ascolto wagneriano tra gli immortali. Pestelli dice che per conoscere Wagner è bene cominciare da qui; di certo l'overture di questa opera è affascinante e ti porta via come una folata di vento, verso orizzonti aperti e terribili.

La versione che avevo in casa è un'incisione storica del 1944, Clemens Krauss alla testa della Bayerischen Staatsoper e il leggendario Hans von Hotter nelle vesti di Dalan. Devo aver comprato questo CD in qualche svendita d'occasione, mi pare di ricordare vagamente "Il Libraccio" sui Navigli milanesi, nell'anno in cui abitavo lì. Era sicuramente prima di diventare acerrima nemica delle edizioni storiche, astenendomi assolutamente dall'ascquistarne: generose di fruscii e gracchi che niente hanno a che vedere con la musica, difficilmente ci dicono granchè dei loro passati splendori. Ad ogni modo, per oggi ce la facciamo bastare.

Si ha un bel criticare da parte dei musicologi del Novecento ma alla fine Wagner è sempre Wagner. Eccessivo, travolgente e stravolgente, grandioso e ineffabile, ha permeato talmente la nostra cultura, musicale e non, che ormai è parte di noi, al di sopra di ogni giudizio, al di là del bene e del male.

L'altro nome di questa opera è Il vascello fantasma ; in effetti la leggenda parla di una nave fantasma che non riesce a tornare a riva e viene avvistata dai marinai nelle notti di tempesta. Wagner, dal canto suo, aveva rischiato di fare la fine del topo su un vascello simile nel 1839 quando, tentando di scampare ai creditori scappando a Londra, aveva fatto quasi naufragio. La prima dell'opera è datata 1843 e segna l'inizio del nuovo corso wagneriano: leit motiv, melodia infinita, mito e folclore. Non manca nulla per fare un giro sulle ali della grande musica...

lunedì 22 febbraio 2010

Claudio Monteverdi,
Il combattimento di Tancredi e Clorinda
214/35

Dice bene Pestelli che "esistono musiche che sono più importanti che belle, voglio dire dove la bellezza conta meno del peso specifico della composizione." E questo è decisamente il caso: non vorrei apparire blasfema ai sacerdoti della storia della musica ma alcune opere del primo barocco sono davvero difficili da digerire, anche quando sono scritte da Monteverdi su un testo di Tasso. Forse il busillis sta nel fatto che, come dice più avanti il nostro, "il gesto teatrale sembra suggerire l'invenzione musicale; qualche volta più che suggerirla la sostituisce addirittura." E dunque, se noi questo gesto teatrale non lo vediamo, la musica da sola perde parecchio.

Approfitto per una volta di un ascolto fatto per lavoro, unendo per così dire l'utile al dilettevole. Anche se confesso che di dilettevole in questo Monteverdi ne sento poco: questi affetti esasperati, queste voci teatrali, sia pure spezzate da alcune felicissime invenzioni strumentali, non mi conquistano.

E dunque ascolto i circa venti minuti di questo Combattimento con le orecchie della mente ma non con quelle del cuore, da un'edizione miscellanea che raccoglie musiche barocche sulla Gerusalemme liberata; chissà se l'incisione consigliata da Pestelli, il classico e insuperato Consort of Musicke diretto da Antony Rooley avrebbe fatto la differenza...

lunedì 15 febbraio 2010

Domenico Scarlatti,
Sonate (214/34)

Dice bene Pestelli: "quando si dice Domenico Scarlatti più che a temi o a sonate precise si pensa a un concetto sonoro, a uno stile, a un clima generale in cui centinaia di sonate per clavicembalo si sovrappongono in una girandola luminosa." E stasera, dopo un lunedì di lavoro in biblioteca, ho proprio bisogno di questa musica "sferica", altra definizione pestelliana, risolta in se stessa che, senza banalizzare, propone una visione coerente del mondo, anzi dell'universo.

Non sono invece d'accordo sul fatto che il pianoforte utilizzato da Horowitz renda queste Sonate di più immediata comprensione. In realtà la bidimensionalità di questa musica è resa alla perfezione dall'algida sonorità percussiva del cembalo, laddove il suono del pianoforte è indissolubilmente legato nel nostro immaginario ai compositori romantici e a certe espressioni del sentimento. Però Horowitz, da gigante qual è come direbbe un mio carissimo amico, non indulge in alcuna svenevole romanticheria e il suo è il pianoforte più cembalistico che si possa immaginare.

Ma quante sono le sonate di Scarlatti? Una fonte da verificare ne conta 555 (numero un po' troppo simbolico per non dubitarne, non vi pare?), molte delle quali scritte per la corte di Madrid, dove visse a lungo come maestro di cappella. Ovviamente c'è molto mestiere in queste brevi sonate; tuttavia la felicità dell'invenzione melodica e spesso di quella armonica, ne rende molte dei piccoli capolavori. Che mi godo dal mio I-Pod, in attesa che si faccia l'ora di cena, cercando di purificare le fatiche di questa intensa giornata di lavoro.

sabato 13 febbraio 2010

Claude Debussy, Preludes, vol. I
214/33

Niente di meglio che accompagnare questo sabato, freddo ma luminoso dopo tanta pioggia, con l'impalpabile evanescenza dei Preludi di Debussy. In casa ho ben due possibilità di scelta: Thiollier e Canino.

Pare che dopo il bachiano Clavicembalo, comporre una raccolta di preludi fosse diventato un must per ogni compositore che si rispetti. E Debussy non sfugge a questa seducente sirena, concludendo nel 1910 il primo di due volumi di preludi. Immersi totalmente nella poetica del simbolismo, sono una delle più calzanti incarnazioni dell'aria che si poteva respirare nella Belle Epoque: malinconia, mistero, sensualità, nostalgia, stupore, segreto, umorismo, sguardo acuto e ironico sulla realtà. Ciascuna composizione ha un titolo ma Debussy lo pone alla fine del pezzo e non all'inizio, quasi a dire: "Le parole sono il suggerimento di un'immagine ma non fateci troppo affidamento: la musica è solo musica." I titoli però sono davvero suggestivi: Le danzatrici di Delfi, Vele, Il vento sulla pianura, Suoni e profumi nell'aria della sera (e questo è pari pari un verso di Baudelaire, vate di questa generazione di artisti), Le colline di Anacapri, Passi sulla neve, Il vento dell'ovest, La fanciulla dai capelli di lino, Serenata interrotta, La cattedrale inglese, Danza di Puck (e qui fa capolino Shakespeare del Sogno di una notte di mezza estate), Menestrelli. Ancora una volta musica e letteratura si intrecciano e rinforzano l'un l'altra i propri significati.

Mi coglie sempre un brivido pensando che tra qualche anno tanta bellezza sarebbe stata spazzata via dalla Grande Guerra e che questa evanescente raffinatezza non riuscirà a contrastare un solo colpo di granata. Il brivido raddoppia perchè mi sembra di scorgere tanta somiglianza tra ciò che accadeva 100 anni fa e ciò che accade adesso. Mentre gli intellettuali si chiudono nelle loro torri d'avorio, nei teatri e nelle sale da concerto, la barbarie avanza sotto forma di televisione volgare e sboccata che istilla in chi la guarda le nuove leggi della non-convivenza civile: ha ragione chi urla più forte e chi picchia più duro. Al principio dei secoli nuovi, i cascami di quelli precedenti brillano per un attimo in tutto il loro splendore per poi sparire inghiottiti dalla palingenesi ricorrente. Che ci aspetterà in questo XXI°secolo? Staremo a vedere. Intanto lascio che Debussy mi culli tra le sue note di cristallo e d'argento.

venerdì 12 febbraio 2010

Franz Joseph Haydn,
Sinfonia n.88
214/32

Intervistando qualche tempo fa un noto scienziato, alla mia domanda su quale musica preferisse, mi sentii rispondere: "Musica allegra, Mozart, Beethoven." Al di là dell'ovvia banalità, intuitiva ma tutt'altro che facilmente dimostrabile - che cosa vuol dire musica "allegra"? - forse tra i compositori di musica "allegra" potremo mettere anche Haydn, che almeno era allegro di suo. I biografi, infatti, parlano di un carattere amabile che lo rendeva accattivante, nonostante l'aspetto non fosse quello di un adone. Allegria in musica forse è umorismo, sorpresa, capacità di scrivere melodie che ci restano felicemente impresse nella memoria già al primo ascolto. Be', forse tutte queste caratteristiche la Sinfonia n.88 le ha.

Pestelli, con la consueta arguzia: "...se uno ascolta bene, ad esempio, la Sinfonia n.88 potrà dire di conoscere da un solo CD tutto il patrimonio di umorismo, d'intelligenza, di gioia che le sue sinfonie hanno regalato al mondo." E più avanti una notazione ancora più suggestiva: "ben a ragione i contemporanei di Haydn lo avevano paragonato a Laurence Sterne: come nello scrittore inglese, la qualità umoristica di Haydn è quella di scrivere una sinfonia e allo stesso tempo ragionare con l'ascoltatore sul lavoro che sta facendo, uscire dal quadro, mostrargli le possibilità e poi sorprenderlo con una mossa nuova e inaspettata. Nessun musicista prima di lui era arrivato a tanto."

Ascolto l'incisione consigliata, Wiener Philarmoniker diretti da Bernstein: estremamente fluida, i tempi sono giusti e l'umorismo c'è tutto. La prossima volta che qualcuno mi chiederà musica allegra saprò che consigliare...

giovedì 11 febbraio 2010

Johannes Brahms,
Rapsodia per contralto op.53
214/31

Quanta musica prende il via dalla poesia. E non parlo ovviamente solo del melodramma, che anzi lì davvero la parola è serva della musica, come diceva qualcuno, ma di tanta musica strumentale o corale proprio come questa rapsodia. Certo anche ascoltarla senza comprendere le parole è qualcosa che impressiona il cuore e la mente. Ma ascoltarla dopo aver letto le parole di Goethe, che il contralto canta, è entrare in un mondo di incredibile emozione.

1777: Goethe compone Harzreise im Winter, dopo una serie di passeggiate invernali intorno al fiume Harz. La forza e la bellezza della natura colpiscono il poeta che è anche naturalista e guarda con occhio attento e partecipe ogni cosa del paesaggio. 1869: Brahms sceglie tre strofe del poemetto, la quinta, la sesta e la settima e le trasforma in una rapsodia. Le parole sono cantate da un contralto, la voce femminile più calda, come se fosse proprio la Natura a cantare. E le parole dicono questo più o meno:

Ma chi è che si nasconde laggiù? Il suo cammino vaga nel fitto del bosco e si è perso, piante ed erbe si richiudono al suo passaggio e la natura selvaggia lo inghiotte.

Ah, chi guarirà il suo dolore, il cui antidoto si cambiò in veleno, chi bevve il suo odio di uomo dalla pienezza dell'amore? Prima fu disprezzato e ora disprezza egli stesso e così facendo divora segretamente, egoista insaziabile, tutto ciò che di buono è in lui.

Ha una nota il tuo salterio, o Padre dell'Amore, che il suo orecchio possa sentire? Consola allora il suo cuore. Ridà la vista al suo sguardo annebbiato e permettigli di vedere tutta l'acqua che sgorga intorno a lui, dal deserto dove giace assetato.


Pestelli considera questa Rapsodia "forse la composizione di Brahms che più si addentra nella malinconia e nel malessere del vivere" pur riuscendo a comunicarci col suo "canto d'inflessibile bellezza" una risposta di pienezza. Vaghiamo col viandante impaurito nel fitto del bosco anche noi e la nota che ci salva è questa di Brahms, filo d'arianna per uscire dal caos.

martedì 9 febbraio 2010

Franz Schubert, Lieder (214/30)

Josquin Desprez, Chansons (214/29)

Robert Schumann, Humoreske (214/28)

L'ultima settimana l'ho trascorsa in viaggio nel nord Italia ma non per questo mi sono allontanata dagli immortali. Facendo scorta di alcuni capolavori sul mio fedele I-Pod, ho ascoltato soprattutto in treno, da una città all'altra, e inevitabilmente la musica ha preso il colore del paesaggio. Scrivo quindi tutte insieme le note degli ultimi tre ascolti.

Mercoledì pomeriggio di una giornata frenetica. Ho accelerato i ritmi di lavoro e compresso quello che avrei dovuto fare nella settimana, in due giorni e mezzo. Prendo la Freccia Rossa che in un baleno mi porterà da Roma a Milano. E mi godo tre ore di sospensione del tempo, tre ore per me, in cui mi riposerò lasciandomi cullare dal dondolio sfrecciante del treno e dalla voce elegante e pura di Elisabeth Schwarzkopf che canta 12 Lieder di Schubert. Pestelli ci mette del suo nel farmela vedere: altera e fascinosa nei suoi meravigliosi abiti da sera che "parevano ancora più splendidi accanto alla nera massa del pianoforte a coda." Chissà se Edwin Fisher, che la accompagna in questo CD EMI, era un po' innamorato di lei... An die Musik è così struggente che ti incatena al filo dell'ascolto: "cantava quelle note e quelle parole con una nobiltà e un fervore che stava tra la preghiera, l'inno e l'intima confessione: quel "grazie" alla musica, tutto il pubblico se lo ripeteva con lei e per lei." Amen.

Due giorni dopo prendo un altro treno al volo: destinazione Verona. Milano è tutta bianca dopo una notte e una mattinata di neve, gran parte della quale mi si è sciolta nelle scarpe (le mie fantastiche valigette Bric's hanno invece preservato asciuttissimo tutto il loro contenuto, meno male). Nel treno il riscaldamento è adeguato alla giornata, gli altri passeggeri sono tranquilli ed educati ed io posso godermi il mio immortale, incarnato oggi da quattro chansons di Josquin Desprez, ascoltate nell'edizione consigliata da Pestelli, dalle voci dell'Hilliard Ensemble. Ne ho scelte quattro - e mi sono pentita al primo ascolto di essere stata così parsimoniosa, sono splendide! - El grillo è buon cantore, Mille regretz, Petite camusette, Je me complains. Io la Milano di Josquin la vedo: una grande città della metà del Quattrocento, in ascesa, forte e prepotente ma desiderosa anche di essere raffinata quanto le più nobili rivali, Roma, Firenze, Ferrara. E allora che vengano i migliori pittori, poeti e musicisti a rallegrare e dare lustro alla dinastia degli Sforza, mentre Leonardo dipinge L'ultima cena e prepara scenografie incredibili per le feste del castello, inventa macchine da guerra contro i nemici e progetta miglioramenti per i Navigli. Pestelli dice che Josquin è "un maestro che per il primo ha conquistato alla musica un'importanza pari a quella della altre arti nella società del Rinascimento europeo." Come dargli torto?

Così scrive Robert a Clara, futura moglie: "Tutta la settimana sono stato al pianoforte e ho composto, riso e pianto allo stesso tempo; troverai l'impronta di tutto ciò nella mia grande Humoreske." Come non provare un brivido di fronte a questo stato di ebbrezza, sapendo che Schumann spegnerà i suoi giorni nella follia? Si è ancora nel 1838 e gli dei gli concederanno ancora tanti anni di lucidità per comporre capolavori ma anche questo è uno dei presagi di cui la sua vita è fitta. I brani vivaci e vari di Humoreske, dai ritmi inusuali per l'Ottocento romantico e dai repentini cambi di sentimento, hanno accompagnato il viaggio da Siena a Roma, in una giornata invernale e brumosa. Pestelli magnifica, e ne ha ben ragione!, questa interpretazione di Radu Lupu "con cambi di umore rapidi come nuvole temporalesche, unendo i frammenti che zampillano in un solo corso continuo, fra marce, trotti di cavalieri, confessioni e motti d'arguzia, arabeschi e romanze." Io ho ascoltato e riascoltato più e più volte questa mezz'ora scarsa di musica, fondendola con le colline e i campi della Toscana, con le città sugli speroni di tufo dell'Umbria, con le valli verdi di pascoli del Lazio, fino al delirio urbano di Roma.

lunedì 1 febbraio 2010

Maurice Ravel,
Le Tombeau de Couperin
(214/27)

Pare che gli abbozzi di questa suite risalgano al 1914, stesso anno di composizione del Trio, di cui si parlava qualche pagina fa. La Grande Guerra guidò e trasformò questo capolavoro, pubblicato poi nel novembre 1917, in un solenne ma assolutamente non retorico epitaffio, in ricordo di un grande compositore certo, Couperin, ma anche di uomini che erano stati compagni di Ravel al fronte. Se si ha la pazienza di leggere quei caratteri in piccolo al principio di ogni brano dello spartito, infatti, si scopriranno altrettanti nomi di giovani caduti che voglio ricordare qui: Jacques Charlot, Jean Cruppi, Gabriel Deluc, Pierre e Pascal Gaudin, Jean Dreyfus, Joseph de Marliave. Sono certa che ciacuno di loro ha dato il proprio volto e il proprio carattere al pezzo che accompagna, nella mente e nel cuore di Ravel. Tornare allora alla asciutta severità del barocco di Couperin ha significato anche eliminare tutte le reverie della belle epoque, distillando un linguaggio moderno che, secondo Pestelli, "non solo anticipò di qualche anno il fiorire del neoclassicismo musicale europeo, ma seppe instillare in questa corrente di gusto un poco intellettualistico qualcosa di severo e di scavato, di doloroso quasi."

Ascolto l'interpreazione di Françoise-Joël Thiollier del 1994, in un CD Naxos che è il secondo di un'opera completa pianistica di Ravel. L'eleganza e la leggerezza per eseguire questo repertorio, Thiollier ce l'ha tutta. Non sono molto d'accordo sul tempo scelto per il Preludio, davvero troppo veloce, ma il resto è cesellato quasi ovunque con sapienza, in particolare nell'accentuazione del ritmo sincopato di molti di questi brani, che sono novecenteschi in tutto e per tutto, sotto la patina classica.

Giuseppe Verdi,
La traviata

Anche quest'opera è una miniera di ricordi. La prima volta che la vidi a teatro fu nel 2001, alla Scala. Era l'anno delle celebrazioni verdiane e con un gruppetto di matti, che allora frequentavo, si andava a prendere i biglietti di loggione. Detta così pare semplice; in realtà era una vera e propria maratona, permessa dall'età, dall'entusiasmo e dalla amena compagnia. Per ottenere i famigerati biglietti di loggione, dove ti può toccare di stare pure in piedi se non corri per le scale abbastanza in fretta, bisogna rispondere ai cosiddetti "appelli". Ovviamente ce n'è più d'uno e si tengono di notte, l'ultimo verso l'alba. Be', noi ci facevamo gli appelli del sabato, stavamo praticamente in piedi tutta la notte con la mitica colazione finale al caffè Varenna di Corso di Porta Ticinese, alle 6 di mattina. Poi tutta la domenica a dormire e alle 18 si era allo spettacolo, belli, riposati ed eleganti. Per allenarci a tale tour de force e mantenere alto il morale della truppa, la rappresentazione era preceduta da due o più cenette pro-opera a casa dell'uno o dell'altro, durante la quale si ascoltavano le arie e io ero incaricata, in quanto professoressa allora in pectore, di raccontare la trama. Ci siamo divertiti e ci siamo ascoltati un sacco di belle opere. Tra cui Traviata. Di cui ero sicura di avere almeno una selezione dell'opera e invece nisba, nella mia discoteca casalinga (ma qui sospetto un furto e ho anche dei forti sospetti...).
Tra i ricordi c'è un'altra Traviata più recente, questa volta all'Opera di Roma nel 2007, con le scene di Zeffirelli e diretta da Gelmetti, non male ma nemmeno da strapparsi i capelli e oltretutto un secondo cast. Ho però il programma di sala, con dei saggi che prima o poi rileggerò; noto solo che la maggior parte sono riciclati e i pochi originali sono scritti da studenti del primo anno di DAMS, nell'ambito di un progetto "Studiare con l'opera", che non so se c'è anche adesso. Magari saranno anche più interessanti di quelli dei musicologi blasonati ma dubito che glieli abbiano pagati (mentre a noi avranno chiesto i soliti 10 euro pieni).

Come giustamente sottolinea Pestelli, oggi la carica eversiva del soggetto - che forse in Verdi non fu nemmeno così essenziale - non fa più rumore; la morale corrente si è piegata a ben peggiori misfatti di quelli che poteva aver commesso una mantenuta, morta per di più di tisi e quindi già punita dalla natura. "L'opera continua a commuovere per la storia interiore della protagonista, per come Violetta conquista se stessa a dispetto di tutti." Il sacrificio d'amore di Violetta è quello che più ci colpisce, soprattutto in una società individualista come la nostra in cui rinunciare all'amore e al piacere personale per il bene dell'amato, sembra una follia (e invece molto spesso sarebbe una grande saggezza; vedi coppie male assortite per età e ceto sociale che poi fanno una triste fine, triste soprattutto per chi è il più debole dei due). Ma chiudiamo qui il siparietto moralistico e passiamo all'opera.

Sto ascoltando una versione con la Callas che mi è stata scaricata e regalata. Come al solito le informazioni sono scarse e ricostruire chi sono i cantanti e il direttore impresa vana: dovrebbe essere, con un ragionevole margine di dubbio, quella del 1958 con Ghione sul podio, Kraus e Sereni, registrata a Lisbona. Che dire: la Callas è la Callas e anche musicalmente i tempi sono vivaci e azzeccati anche se sento tutto un po' velato per via della registrazione vetusta e live, come proveniente da nebbie del passato remoto. Quello che mi balza agli occhi, anzi alle orecchie, è che quasi tutti i momenti di questa opera sono diventati famosissimi e ci risuonano noti e familiari.