giovedì 28 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Trio «dei birilli» K. 498

Francamente perchè il benemerito Pestelli abbia inserito questo Trio dei birilli tra gli immortali, mi resta oscuro. E' tutto il giorno che lo ascolto, più attentamente e meno attentamente: certo per essere Mozart è Mozart, con l'eleganza e la leggerezza tipiche di certa sua musica da camera, scritta per gioco o meglio per far giocare i nobili, amanti di musica e musicisti dilettanti. Però da qui ad accostarlo alla Quinta di Beethoven... Ad ogni modo, ho deciso di ascoltarmi tutti e 214 i capolavori indicati da Pestelli e così farò; anche oggi ho fatto la mia parte.

L'edizione che sto ascoltando, comprata stamattina su ibs, è un'incisione Deutsche Grammophone (penso degli anni '70, almeno a dire dagli abiti degli interpreti in copertina): Gidon Kremer, Kim Kashkashian, Valery Afanassiev. Garbati, delicati ma frizzanti quando necessario, pieni di buon gusto insomma, niente da eccepire.

Dice il buon Pestelli con la consueta penna felice: "...questa musica è tutta percorsa da una corrente di domande e risposte, di commenti e sottolineature, che nella sua trama elementare, evoca tutta la vita del linguaggio musicale, con le sue profondità e le sue sapienti frivolezze." Possiamo aggiungere noi che anche tanta altra musica lo è. E se dovessimo appellarla "immortale" solo per questo...

lunedì 25 gennaio 2010

Johann Sebastian Bach,
Johannes-Passion BWV 245

Oggi 2 ore, 8 minuti e 48 secondi per ascoltare tutta la Johannes-Passion proprio non li avevo. Però 11 minuti e 10 secondi, sì; e così mi sono scaricata dal solito ibs il coro iniziale "Herr, unser Herrscher", nell'edizione consigliata da Pestelli, Karl Richter col Münchener Bach-Chor e Orchester.

E' stato come aprire una porta sull'inferno dell'orrore e del dolore, all'improvviso. La modernità di Bach e la sua attualità sono sconvolgenti, ti aggrediscano senza scampo. Cosa meglio di questa musica ti spiega il mistero della Passione, nel suo carnale orrore? Un uomo che muore dilaniato sulla croce, in un supplizio lento e muto, che contiene in sè tutte le grida del mondo, tutte le sofferenze senza consolazione, tutte le ingiustizie senza riscatto. Solo il mistero della resurrezione può farci accettare un tale destino e dare una luce di superiore verità a questo strazio. E allora il dolore diventa sacrificio, il caos cosmo di nuovo e la nostra vita sulla terra il tassello di una trama più grande, che possiamo sopportare in qualche modo.

Meno nota della Matheus-Passion, questa è la prima Passione scritta da Bach, all'età di 37 anni, nel 1724. Del testo tedesco del coro iniziale ho trovato solo questa traduzione in inglese, che tralascio dal tradurre ulteriormente in italiano.

Lord, our master,
whose fame is glorious in all lands!
Show us, by thy Passion
that thou, the true Son of God,
hast for all times
even in thy deepest lowliness,
been glorified.

domenica 24 gennaio 2010

Johannes Brahms,
Sinfonia n.1 op.68

Andando avanti in questa impresa mi rendo conto di quanto la mia discoteca casalinga sia nata senza un criterio, sull'onda di esigenze di lavoro o della casualità dell'edicola. Infatti nemmeno questo capolavoro era presente, nonostante fosse una mia vecchissima conoscenza: lo ascoltavo sin da ragazzina da un grande LP, che faceva parte di una collezione di capolavori, quella sì, organica e seria (anzi, forse dovrei recuperarla a casa di mia madre e dotarmi di un piatto per poterla ascoltare). Visto che è domenica ho deciso di concedermi un salto da Ricordi a via del Corso e di scegliere qualcosa anche per i successivi appuntamenti brahmsiani - a Pestelli piace parecchio questo autore, a dire dal numero di sue composizioni che ha inserito tra gli immortali...

Ascolto i Berliner diretti da von Karajan, un'incisione Deutsche Grammophone degli anni Settanta, rimasterizzata che contiene tutte e 4 le sinfonie. Seraficamente terribile, una specie di aquila che vola sugli altopiani. Pestelli suggerisce quella storica di Furtwaengler, di cui in fondo Karajan è l'erede, almeno per queste sinfonie. E ad ogni modo, davvero nulla da dire; solo abbandonarsi alla maestosa grandezza di questa musica, che ti avvolge completamente come un buco nero (e attenzione a non perdersi!).

Anche se la prima esecuzione di questa sinfonia risale al 1876, pare che Brahms cominciasse a lavorare ai primi abbozzi quando aveva 22 anni; perchè tanto tempo per completarla? Forse perchè Brahms, come è stato detto da più parti, sentiva veramente di essere l'erede di Beethoven e di poter continuare a dire una parola di verità dopo la Nona, che sembrava aver messo fine alle possibilità di questo genere musicale. E infatti fu Hans von Bülow, uno dei maggiori direttori d'orchestra della sua epoca, a dire che "il mondo musicale aveva una Decima sinfonia", come riporta Pestelli, intendendo che "la storia della sinfonia riprendeva il suo corso alle stesse quote di quel modello, ma senza imitazioni accademiche."

sabato 23 gennaio 2010

Georges Bizet,
Carmen

"Carmen è un mito che ciascuno porta in sè e solo in parte trova soddisfazione in realizzazioni concrete." Così Pestelli. E certo la realizzazione concreta che sto ascoltando in questo momento, un DVD comprato in edicola (è la prima volta, confesso, ed ero curiosa del risultato), Daniel Oren sul podio del San Carlo, Nadja Michael Carmen e Sergej Larin Don José, è una registrazione così scadente che non riesco nemmeno a farmene un'idea. L'unica cosa armonica è il giallo dominante di scene - minimalistiche - e costumi; tra l'altro si intona incredibilmente con l'arredamento del mio soggiorno, dove campeggia il televisore (ormai cieco e muto, non ho comprato il decoder, ma ancora abilissimo a riprodurre film e Wii).

Scherzi a parte, meglio ricordare con le orecchie della memoria la bella edizione in forma di concerto cui assistetti nel 2003 a Santa Cecilia, diretta da Prêtre, e che mi entusiasmò letteralmente con la sua vivacità e coerenza di fondo.

E' vero che Carmen è un mito: il mito della libertà al di sopra delle regole, di un prendere la vita come viene e morderla per farne uscire il succo, non importa quanto sappia di sangue. Non c'è da stupirsi che al borghese pubblico parigino del 1875 sembrò un pasticcio inguardabile: tutta invidia, in realtà, e di lì a poco anche la morale sarebbe cambiata (pensate ai romanzi di D'Annunzio, per scendere in particolari nostrani...). E infatti a gente con un po' di sale in zucca (e sto parlando di Brahms, Bismark, Čajkovskij, Saint-Saënse, Wagner e Nietsche) la Carmen piacque, eccome. Peccato che Bizet non visse abbastanza per godere il suo trionfo: morì il 3 giugno di quello stesso 1875, senza arrivare al 23 ottobre in cui il pubblico viennese applaudì con slancio il suo capolavoro.

venerdì 22 gennaio 2010

Georg Friederch Haendel,
Water Music

"Se c'è una musica che bisogna ascoltare tutte le mattine prima d'incominciare le solite occupazioni, nulla di più tonico e corroborante si può trovare della Water Music", esordisce così il nostro Pestelli. E io ho fedelmente ubbidito al suo suggerimento scaricando dal solio ibs le tre suites complete, Trevor Pinnock alla testa dell'English Concert, un'esecuzione classica, visto che "questa musica potrà mettere in forma lo spirito per buona parte della giornata."

Effettivamente nulla come la musica barocca sembra dare un ordine al caos delle nostre giornate metropolitane del XXI° sec. E non perchè sia "allegra", come qualche sprovveduto sostiene, quanto piuttosto perchè si propone di dare un ordine alla complessità. E ci riesce. Acoltando i barocchi ci affacciamo sul ventaglio dei sentimenti umani da un'altissima terrazza assolata, da cui la vista spazia senza limiti. E vediamo che gli ostacoli delle montagne si risolvono poi in dolci pianure e che non lontano da aridi campi scorrono fiumi ricchi d'acqua.

Fortunato Giorgio I, che commissionò questa musica a Haendel per il suo insediamento nel 1717 (mentre Bach scriveva i BWV 1041-1043...) e se l'ascoltava portandosela dietro sul Tamigi, con i musicisti che suonavano su una chiatta. Ma più fortunati noi che con un semplice I-Pod ce la portiamo dove vogliamo. E' proprio quello che farò io oggi e forse mi sentirò un po' più "regale" del solito...

giovedì 21 gennaio 2010

Pëtr Ilič Čajkovskij,
Concerto n.1 per pianoforte e orchestra

Per l'immortale di oggi, un ascolto futuristico. Approfitto di una novità della RAI lanciata da qualche mese, la trasmissione di concerti in streaming web audiovideo (trovate il programma sul sito dell'Orchestra RAI di Torino: www.orchestrasinfonica.rai.it). Che dire. Anche la radio cresce e abbraccia nuove frontiere. Durante un interessantissimo convegno sulla radio che si è tenuto a Parma lo scorso dicembre alla Casa della Musica si parlava proprio delle nuove frontiere di questo mezzo, che ha fatto crescere musicalmente gli italiani lungo tutto il Novecento. E le nuove frontiere, si fa presto a capirlo, sono le possibilità del web che rende incredibilmente interattivo anche questo mezzo, fino ad ora "a senso unico." E soprattutto lo ibrida con la televisione. Vedremo dove andrà a finire ma mi sembra che sia partito già bene. D'accordo, la ripresa è a camera fissa per la maggior parte del tempo, il solito francobollo nel nostro schermo, la qualità audio non sarà il meglio possibile nell'etere ma io direi che le premesse per lo sviluppo ci sono tutte e che la radio si arricchisce di una nuova possiblità: dare un paio di occhi ogni tanto ai suoi affezionati.

In questo caso posso vedere in carne ed ossa solista e direttore, rispettivamente Hüseyin Sermet e Alpaslan Ertüngealp, turchi entrambi. E l'impressione è proprio quella di esserci. Non è come quando guardi un concerto in televisione, con quelle riprese montate, a volte un po' finte o, peggio, alternate a quelle svenevoli immagini di fiori e paesaggi campestri; è piuttosto come guardare dal buco della serratura, intrigante...

Sermet si lancia nel suo bis (una sonata di Antonio Soler) e devo dire che suona bene, dà un po' di meditativa pensosità ai ricami sonori del compositore del Settecento. Il Concerto non l'ho ascoltato con grande attenzione, tutta presa dalla novità del mezzo e dall'andare su e giù dalle varie finestre, chiedo venia! In compenso si stanno scatenando i messaggi degli ascoltatori che via mail già commentano e recensiscono, letti dagli speaker RAI, bravi! bravissimi! (ecco l'interattività di cui parlavo prima...). E mentre i commessi spostano le sedie sul palco per preparare la seconda parte, io mi dedico a spigolare dal mio Pestelli.

Questo concerto è definito una "vulcanica meraviglia che nessun consumo moderno è ancora riuscito a rendere inoffensivo." Io direi che in alcuni punti è davvero trionfale: il pezzo adatto per questo primo ascolto del futuro.

martedì 19 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.7 op.92

Wolfgang Amadeus Mozart,
Concerto per clarinetto e orch. K.622

Concerto anche stasera e due capolavori in un giorno, sto battendo tutti i record... Dunque, sul podio di Santa Cecilia il direttore prodigio Diego Matheuz, 25 anni, sorriso venezuelano e capigliatura nerissima e fluente. Volevo proprio andare a sentire con le mie orecchie se questo sistema musica che ha tirato fuori dalle favelas decine e decine di ragazzi sudamericani, produce davvero musicisti in gamba. E sono stata accontentata. Con un programma così classico (e la serata si concludeva con un altro Beethoven, il Leonore III) che è quasi una "prova del 9", non si scappa: o sai dirigere o non sai dirigere e devo dire che, dopo qualche incertezza iniziale (poca fluidità nel gesto, tempi un po' troppo ampi) dal Presto della Settima è stato tutto un fuoco di emozioni. Di certo i 25 anni di questo Maestro non sono quelli di un nostrano "bamboccione" ma il fatto che sia così giovane si sente piacevolmente: nel piglio, nel ritmo, nell'energia che infonde ai musicisti e alla sala, per altro gremita anche nei posti dietro l'orchestra. I corni si sono presi qualche libertà e qualche stonatura di troppo che Pappano non gli avrebbe lasciato passare; ad ogni modo, il concerto è andato. E più che bene.

Veniamo ai pezzi. La Settima venne eseguita per la prima volta l'8 dicembre del 1804, in una serata di beneficenza che raccoglieva fondi per i feriti della battaglia di Hanau. Il generale austriaco Karl Philipp von Wrede aveva cercato di sbarrare la strada a Napoleone che, seppure in ritirata, era sempre un grande stratega; e infatti ebbe la meglio, lasciando cadaveri austriaci dappertutto. Il successo del concerto fu strepitoso e la musica, è proprio il caso di dirlo, una cannonata. Pestelli dice, con la sua solita eleganza: "il ritmo è tutto, sbriga le mansioni dell'umile servitore e folgora come un generale al posto di comando."

Il K.622 è filato liscio come un tappeto di velluto. Merito della scrittura di Mozart, intima ed elegante e merito di Alessandro Carbonare, eccellente prima parte dell'orchestra e assoluto virtuoso, che per l'occasione ha rispolverato il clarinetto di bassetto, strumento per cui questo concerto era stato scritto e che è ormai sparito dalla circolazione. Avevo già ascoltato alcuni anni fa lo stesso concerto eseguito da Carbonare, era forse il 2003 anno in cui è diventato solista dell'orchestra romana, e lo ricordavo con grandissimo piacere. Lo stesso provato stasera, riascoltandolo: perfetto e calibrato in ogni momento, mai una sbavatura, mai un eccesso, sembrava averlo scritto lui il concerto, talmente fluida e piena di senso era la sua interpretazione. Bellissimo il bis in solo che ci ha regalato: una reverie jazz, di grande raffinatezza. Questo è l'ultimo concerto scritto da Mozart, sarebbe morto pochi mesi dopo, e siamo nell'ottobre 1791. Pestelli scrive: "la bellezza di queste opere immortali ha qualcosa di misterioso e di indecifrabile proprio perchè elementare." Sì, è proprio una di quelle opere in cui Semplicità e Bellezza coincidono perfettamente.

Questa bella serata mi ha portato una sorpresa. Ho incontrato per caso all'entrata una signora che abita nel mio stesso palazzo e con cui non avevo mai avuto modo di scambiare più che poche parole di circostanza in dieci anni. Mi era sempre piaciuta molto però, coi suoi modi garbati, la chioma candida, la figura alta e magra, un po' curva per gli anni ma sempre elegante, come i suoi tailleur senza tempo e il suo sorriso radioso. Stasera siamo tornate a casa insieme e abbiamo avuto modo di parlare più a lungo; ho scoperto che dietro quel sorriso ci sono tante sofferenze, portate con dignità e ferma sopportazione. Sul portone mi ha detto: "Diamoci del tu." E così adesso siamo amiche.

Anche lei in fondo è un po' come i pezzi di questa sera: vecchie conoscenze che ci possono stupire, se solo ci fermiamo ad ascoltarle meglio...

lunedì 18 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sonata per pianoforte n.23 op.57 "Appassionata"

Probabilmente per Ashkenazy la passione coincide con l'arrabbiatura. Eccessivamente arrabbiata, piena di strappi e di inaudite velocità, è l'interpretazione che avevo in casa, un CD allegato ad un «The Classic Voice» di qualche anno fa. Partitura alla mano e ben altre esecuzioni nelle orecchie, non ultima quella di Maurizio Pollini lo scorso 18 agosto al Teatro dei Rozzi di Siena, dove ormai è un'abitudine andarlo ad ascoltare, l'ho sopportata da cima a fondo. Per poi andare di filato al mio computer e scaricarmi la versione di Pollini che sto ascoltando adesso, finalmente. Questa volta sono andata a comprarla su www.ibs.it, fornitissimo di belle edizioni di musica classica, molto più di I-Tunes, che sulla classica non sempre è soddisfacente. L'incisione è del 2003, il taglio è il solito polliniano razionalismo pieno di fuoco.

Detto questo passiamo al pezzo. Come faceva Beethoven ad immaginare tali e tante meraviglie pianistiche per quelle carrette che erano i pianoforti della sua epoca, resta un mistero. Anche questa visionarietà, l'immaginare le possibilità di uno strumento nel futuro, fa parte del corredo dei grandi. Certo, gli Steinway attuali aiutano molto a ricreare quello che era nella mente di Beethoven.

Pestelli racconta un simpatico aneddoto a proposito della composizione di questa sonata: pare che Beethoven, tornato dalla consueta passeggiata (mmm...queste passeggiate regolari mi ricordano Kant, morto proprio in quel 1804 in cui fu composta la sonata...) in preda al furore compositivo che bolliva e ribolliva - era il finale dell'Appassionata, appunto - avesse lasciato il povero allievo che lo aspettava per più di un'ora in disparte, per poi congedarlo con un: "Oggi non c'è lezione, ho ancora molto da lavorare." E dice bene il nostro caro Pestelli più oltre: "In quel borbottare indecifrabile, dove non contano più le singole note e dove non c'è disegno, ma conta l'effetto d'insieme, il tono e il colore, si può dire che tramonti l'idea classica della musica come "cosa bella" e sia incominciata la musica romantica e moderna: intesa come qualcosa che ti viene incontro senza un tema ben raffigurato, che significa senza essere cantabile, solubile in canto, ma solo depositata e ingranata nel suono artificiale dello strumento."

Bella responsabilità addossata a questo pezzo. Ma Beethoven ha le spalle larghe e regge questo ed altro...

domenica 17 gennaio 2010

Igor Stravinskij,
Petruška

Possiamo solo ipotizzare l'emozione sconvolgente provata dai primi spettatori di Petruška nel 1911. Sebbene si fosse a Parigi, città assolutamente all'avanguardia, tutto quello che andava per la maggiore all'epoca era così diverso, così evenescente e impalpabile (pensiamo a Debussy e a Ravel) o languidamente sentimentale (pensiamo a certo Puccini) che non possiamo non essere d'accordo con Pestelli: "in un'Europa immersa in Wagner, Strauss e Debussy, l'urto con quella musica era stato frontale." Sì, una specie di incidente d'auto, nel quale l'Ottocento era morto e il Novecento si era rinforzato le ossa.

Per quanto spesso in cartellone nelle stagioni concertistiche come classico del Novecento, tutto sommato di abbastanza facile comprensione (l'ho ascoltato di recente a Santa Cecilia il 27 aprile scorso, direttore Ingo Metzmacher; e fu una serata che ricordo con particolare affetto perchè segnò la riconciliazione con una persona con cui avevo un conto in sospeso e che incontrai lì per caso: misteri della musica...) Petruška si trova poco frequentemente nelle stagioni di balletto. E' un peccato perchè temo se ne perda la sua dimensione più autentica; questa è una musica nata per dei movimenti, che vuole essere vestita di costumi, che vuole agire una storia patetica e commovente: il povero burattino, inconsapevole di aprire un'epoca, innamorato senza speranza della sua algida ballerina.

La brillante introduzione a questo balletto ascoltata all'inizio del 2009 in un corso di Franco Piperno alla Sapienza, mi ha dato l'avvio per una serie di riflessioni che ho sviluppato in una relazione di Dottorato: il burattino di Strawinskij è il capostipite di quegli automi o robot che cominciano a popolare l'immaginario collettivo degli artisti del Novecento, cambiando presto di segno la loro presenza. Il perdente Petruška diventerà presto, attraverso la lente esaltatrice del futurismo di Marinetti, il vincente Bululù in un romanzo di Bontempelli, Eva ultima (1923). Positivo e vincente al punto che la protagonista femminile se ne innamorerà, respingendo il complicato uomo in carne ed ossa che non riesce a comprendere.

In questa pigra domenica di gennaio, fredda al punto che starsene a letto è più che piacevole, ascolto dal mio I-Pod una rimasterizzazione della versione originale diretta dallo stesso Stravinskij, alla testa della Columbia Symphony Orchestra. E sono passati quasi 100 anni dalla fatidica prima allo Chatelet di Parigi...

P.S. Qui è possibile vedere un pezzetto del balletto: molto televisivo ma piacevole; sulla destra poi trovate le altre scene, sono 4 in tutto.

venerdì 15 gennaio 2010

Giovanni Pierluigi da Palestrina,
Messe

Dice bene Pestelli: "Palestrina è difficile; per cominciare a capirlo la cosa migliore sarebbe entrare in un coro, anche amatoriale, e provare a cantarlo." Però è anche vero che mettere un semplice CD con le sue musiche nello stereo fa diventare immediatamente la tua stanza una cattedrale cattolica a 5 navate.

Ricordavo che la tomba di Palestrina fosse in San Lorenzo in Lucina e avrei giurato di essermi fermata a dedicargli un pensiero proprio lì, casuale scoperta in uno dei miei giri da turista a Roma. Invece, facendo un po' di ricerche oggi, pare che il "principe della musica" fu seppellito nel 1594 in San Pietro, ma in una tomba comune. Chissà, forse quella di San Lorenzo era solo una lapide commemorativa o forse lo confondo con qualche altro compositore. Un piccolo giallo a cui andrò in fondo prima o poi (ossia la prossima volta che ripasso da quelle parti...).

Per cantarlo, Palestrina lo si è anche cantato, negli anni dell'università in cui facevo parte di un coro che si dedicava alla musica rinascimentale; che bei pomeriggi d'inverno passati nell'aula di Storia della Musica alla Sapienza, sporca e squallida nè più nè meno di adesso, che si riempiva a poco a poco di così tanta Bellezza attraverso le nostre voci... Piccoli miracoli che anche l'uomo sa fare.

Ascolto un CD dei Tallis Scholars diretti da Peter Phillips; contiene le messe Assumpta est Maria e Sicut lilium. E in questo venerdì sera si insinua pian piano una dimensione di angelica serenità.

giovedì 14 gennaio 2010

Giuseppe Verdi,
Macbeth

"Quest'opera [...] ti mette davanti Verdi faccia a faccia: un genio ancora barbaro, ma genio fino alla punta dei capelli." E' sempre Pestelli che parla. Vogliamo metterci che il 1847, anno della prima rappresentazione, era solo ad un soffio da quel '48 "primavera dei popoli" che sconvolse l'Europa? Certe cose i geni le sentono e particolarmente geni come Verdi che alla politica un occhio ce lo buttava...

Non ricordo la circostanza del mio primo ascolto di Macbeth ma ricordo l'impressione di un commento a caldo di un mio amico veronese dei vent'anni - purtroppo perso per strada come altri - "Ah, Macbeth! Il coro delle streghe, che meraviglia..." che mi aveva sempre incuriosito di andarlo a sentire. Quel commento si confonde con la luce dei suoi occhi e con l'Arena dove saremmo andati più tardi (per Bohéme?).

Tanto per smitizzare, oggi mi sono concessa un ascolto dissacrante: ho messo su l'opera mentre pulivo i vetri delle mie 7 finestre. In realtà sono arrivata a 3; poi ho lasciato perdere e mi sono messa ad ascoltare, perchè Verdi, che non si è lasciato scomporre, continuava a lanciarmi addosso tutti i suoi cori e scoppi dell'orchestra, streghe, Lady Macbeth e cavalieri pusillanimi compresi.

Scavando nei ricordi, utilizzai Macbeth in più di un seminario che tenni per le scuole superiori nel 1998 e nel 1999, fresca di laurea. Tentando di colmare l'atavica lacuna musicale delle nostre scuole, affiancavo l'insegnante di letteratura con una serie di ascolti e presentazioni musicali che si riagganciavano al programma di italiano. Ai ragazzi Verdi piacque e ne rimasero paradossalmente più colpiti quelli dell'Istituto industriale che quelli del Liceo. Ah, le mie prime prove didattiche...mi sembrano perse nella notte dei tempi...

Ascolto adesso (in un CD copiato, confesso! ma quando me lo feci passare da un cara amica musicologa, 12 anni, fa ero povera...) proprio la versione citata da Pestelli, Cappuccilli/Ghiaurov/Verrett diretti da Abbado con l'orchestra della Scala. In effetti, la perfezione...

mercoledì 13 gennaio 2010

Maurice Ravel,
Trio in la minore

L'inizio del primo movimento è un invito sommesso e ineludibile: una volta ascoltato non lo dimentichi mai più. Pestelli dice che il modo migliore per conoscere questo Trio è "ascoltarlo dopo una fiera batosta, oppure storditi di stanchezza, con la testa che ronza a vuoto, gli occhi pesti e i nervi ancora tutti drizzati e indoloriti"; così facendo "la nostra sensibilità si riempie di un'essenza nuova e preziosa che di colpo fa scomparire ogni contingenza oscura, materiale, vergognosa." E' una musica capace di rendere leggero e impalpabile ogni peso del cuore, una porta per passare in un universo retto da leggi diverse. Io sto ascoltando la rimasterizzazione di un'incisione storica, il Trio di Bolzano (Montanari, Carpi, Amadori) del 1954, piena di sentimento.

Nel 1914 Ravel ha quasi 40 anni. Ha già scritto molte cose importanti e ha cercato un linguaggio che possa essere espressione del nuovo, come altri suoi maestri e colleghi, Fauré, Debussy. Ma le forme, le forme della tradizione incombono; non possono essere perennemente eluse, reclamano un tributo. E Ravel scrive un Trio che è davvero un trio, in quattro movimenti, il primo e l'ultimo dei quali in forma-sonata, come prescrivono le regole di scuola. Ma che è anche (o soprattutto?) altro: è sogno, evanescente e impalpabile simbolo, e unisce idealmente musica e poesia, passato e presente, così come vogliono i simbolisti. Il secondo movimento si intitola infatti Pantoum, una forma poetica usata da Baudelaire in Harmonie du Soir, una delle più note poesie dei Fleurs du Mal; il terzo movimento è una Passacaglia, forma di danza barocca che si basa su un tema, un tenor, enunciato una prima volta (qui dal pianoforte) e poi sempre ripetuto come base su cui si sviluppa tutto il resto.

Nulla meglio delle parole di Baudelaire possono rendere il senso di questa musica. Eccone un frammento:

Le violon frémit comme un coeur qu'on afflige,
Un coeur tendre, qui hait le néant vaste et noir !
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir ;
Le soleil s'est noyé dans son sang qui se fige.

P.S. Mi dicono che questo Trio sia la colonna sonora di Un cuore in inverno, film francese con Daniel Auteuil e Emmannuel Béart, diretto da Claude Sautet nel 1992. Sarà la buona occasione per vederlo...

martedì 12 gennaio 2010

Gustav Mahler,
Das Lied von der Erde



Oggi niente musica registrata ma un vero concerto. Orchestra di Santa Cecilia al nuovo Auditorio, Antonio Pappano direttore e solisti Anna Larsson e Simon O'Neill. L'eleganza di Pappano, la sua energia e fluidità, vanno a nozze con una partitura così profonda, contemporaneamente sommessa e grandiosa. Ottima prova della Larsson, la cui interpretazione partecipe e intensa ha messo in luce le finezze della partitura e ha reso in maniera convincente il colore del brano. O'Neill: francamente, dalla mia posizione in platea sul lato sinistro, non l'ho sentito; l'orchestra copriva quasi del tutto la sua performance, che è rimasta un punto interrogativo.

Il valore aggiunto di questo concerto (la cui novità era compresa nella prima parte: la nuova opera di Hans Werner Henze, Opfgang, di cui però non parlo in qusto blog, riservato esclusivamente e un po' maniacalmente ai capolavori di Pestelli) è stato l'incontro con 4 vecchi amici, tutti musicologi o musicofili, 3 dei quali musicisti e 1 anche compositore. Scambiare le impressioni nell'intervallo e sentire che non c'è nemmeno bisogno di tante parole per capirsi è un aspetto impagabile dell'andare ai concerti, che raramente purtroppo mi capita di godere. Andare ai concerti, tra lavoro e impegni di famiglia è un lusso per molti e spesso anche per me...

Ma torniamo al Canto della Terra. Pestelli, aforistico come al solito, chiude il suo commento così: "Mahler [...] canta la morte, ma nell'intensità del canto celebra la terra e la vita." Il 1907 non era stato un buon anno per il nostro compositore: la sua adorata figlioletta Putzerl era morta di difterite a soli 5 anni, gli avevano diagnosticato una grave patologia al cuore e, dopo lunghi contrasti, era stato costretto a dare le dimissioni dalla Hofoper di Vienna, di cui era stato direttore artistico. Durante quell'estate si rifugia nella casetta di legno della foto qui sopra, costruita accanto alla casa dove trascorre le vacanze a Toblach (ora Dobbiaco), carta da musica e un libro di poesie. Lo ha ricevuto da un amico, il dottor Theobald Pollack, che ne è assolutamente entusiasta e si tratta di una traduzione, alquanto libera, di una serie di poesie cinesi, pubblicate proprio in quell'anno. Mahler ne sente forte la suggestione, sulla scia della moda orientaleggiante che è diffusa all'inizio del secolo in Europa e decide di scrivere un insieme di lieder che sono anche una specie di sinfonia, talmente sono consequenziali e connessi tra loro. I brani sono sei e a cantarli si alternano un contralto e un tenore; i temi sono la summa della nostra esistenza: la sofferenza, il desiderio, la solitudine, l'ebbrezza, il sogno, il rimpianto, l'amicizia, il mistero della natura.

Il cuore di Gustav Mahler reggerà ancora per qualche anno, fino al 1911. La sua musica è viva anche oggi, fresca e leggera come solo i classici sanno essere. Mi piace chiudere con questi versi, tratti dal primo lied, Il brindisi del dolore della terra, per ricordarci quanto siamo piccoli eppure grandi:

Azzurro eterno è il firmamento, e la terra
è destinata a lungo a stare immobile, e a rifiorire in primavera.
Ma tu, uomo, ancora vivrai?

domenica 10 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Sinfonia n.41 KV 551 "Jupiter"

Che c'è di meglio che cominciare la giornata con la Jupiter di Mozart! Una sinfonia che ha come sottotitolo il nome del primo tra gli dei, Giove, e che si sviluppa nella regale tonalità di do maggiore, non può che dare una piega positiva alle ore successive, persino se si tratta di un lunedì, come oggi.

Scherzi a parte, mi accorgo che non ho mai ascoltato con attenzione e dall'inizio alla fine questa celeberrima sinfonia, anche lei saccheggiata da spot e jingle, anche lei incorruttibile come il platino nonostante gli oltraggi. La compattezza e la chiarezza di pensiero, unite alla mozartiana gioia di vivere sono irresistibili, in particolar modo nel IV movimento, Molto Allegro. E specialmente in questa incisione dei Berliner Philarmoniker diretti da Karajan, registrazione del 1971, che sto ascoltando in questo momento. Come credere che sia stata scritta in 6 settimane, tra il giugno e il luglio del 1788 (e tra un anno la Rivoluzione francese; ogni volta che penso alle coordinate storiche di questi capolavori mi vengono i brividi...)?

Pestelli preferisce un'incisione di Karajan precedente, con l'orchestra della Rai di Torino e trova che le successive di Karajan con i Berliner siano troppo livellate alla ricerca del "bel suono" e meno capaci di comunicare "una vita palpitante, dove anche le ombre, le tenerezze momentanee, le sottolinature popolari servono a dare più verità." Mi fido di Pestelli ma, ahimè, quell'edizione non la trovo. Ne ho ancora un'altra però, Leonard Bernstein con i Wiener Philarmoniker, 1984. Forse è meno viva della precedente, meno energizzante e dunque ben venga il Karajan precedente. Ma sono pronta a ricredermi se qualcuno mi offrisse l'edizione indicata dal nostro Giorgio...

Modest Musorgskij,
Quadri di un'esposizione

Ho ascoltato talmente tante volte per radio o in concerto questa musica, che ero assolutamente convinta di averla in casa. E invece no, cercando e ricercando non l'ho proprio trovata e così ho preso su I-Tunes la versione di Ivo Pogorelich, un'incisione Deutsche Grammophone del 1987, se non ho letto male.

Pestelli dice che questa è una di quelle musiche che si possono consigliare anche a chi non conosce la musica ma vorrebbe tanto "capirla", per rispondere alla domanda-tormentone che tutti i musicisti e musicologi si sentono fare in continuazione dai neofiti della musica classica (e sono legioni di volenterosi!) che presto poi depongono le armi, forse quando scoprono che non c'è una serie di brani da ascoltare coscienziosamente, uno dopo l'altro per ottenere la chiave di volta. Perchè apprendere la musica è una pratica lunga e mai prestabilita, che si svolge parallelamente alla nostra capacità di comprendere noi stessi e la vita che ci circonda.

Ad ogni modo, ricordo che anche io devo aver fatto inconsciamente la stessa osservazione di Pestelli se, alcuni anni fa, scelsi proprio questo brano da regalare ad una cara signora, esperta d'arte ma non di musica, che aveva avuto da poco un brutto lutto. Chissà se le avrà dato un qualche sollievo...

Un altro lutto si intreccia con questa composizione: i quadri descritti dalla musica di Musorgskij sono quelli del pittore e architetto Victor Alexandrovic Hartman, morto a 39 anni e carissimo amico del compositore. Nel 1874, un anno dopo la morte del pittore, venne allestita una mostra con le sue opere e Musorgskij decise di scrivere un'opera musicale che potesse ricordare l'impressione forte di quei quadri, che ritraevano per lo più scene di vita quotidiana russa. Ne venne fuori un brano assolutamente sperimentale nella forma - una serie di pezzi, i quadri, legati dalle ripetute Promenades, ossia gli spostamenti del visitatore da un quadro all'altro - e nel contenuto musicale, già nettamente novecentesco.

Se penso a quanto di straordinariamente moderno hanno regalato al Novecento gli artisti russi da Musorgskij a Strawinskij, da Shostakovich a Rachmaninov a Prokovev, per non parlare dei grandi interpreti come Horowitz, pur vivendo in un paese che era complessivamente ancora calato in un anacronistico medioevo fino al 1917 e poi sconvolto dalla grande rivoluzione, non posso fare a meno di stupirmi profondamente e di essere grata.

L'incisione che sto ascoltando dimostra una grande misura e una profonda e attenta comprensione del testo. Il modo di suonare di Pogorelich è quasi assorto, mai inutilmente arrogante (come in tanti accordi delle Promenades si è tentati di fare), governato da misura e essenzialità. Anche nei tempi: giustamente ampi - questo è un pezzo di bravura ma non ci interessano i funamboli della tastiera - ma non dispersivi. E' come se Pogorelich guardasse tutto dall'alto. E noi con lui.

sabato 9 gennaio 2010

Wolfgang Amadeus Mozart,
Le nozze di Figaro

Confesso che Le nozze di Figaro non le ho ascoltate integralmente oggi; mi sono servita di una selezione di 8 tracks da un cofanetto pubblicato da Repubblica nel 2006, in occasione del 250° anniversario della nascita, con 100 capolavori mozartiani. L'incisione è quella di Muti con i Wiener Philarmoniker, pubblicata dalla EMI nel 1987. Tempi alacri, soprattutto per l'Overture, ma godibile in fin dei conti.

Non posso dire di non aver avuto un'idea dell'opera nel suo complesso ascoltando la celeberrima Overture e alcune tra le maggiori arie e duetti, anche se un certo appetito è rimasto e della torta di cui ci è piaciuta una fetta, vorremmo anche il resto... Ancora le vicende di Figaro, il barbiere di Siviglia, e questa volta è lui che si sposa, tra intrighi ed equivoci da commedia buffa. Pestelli dice che la caratteristica di quest'opera è il suo senso di "sospensione": "prima Mozart è una cosa sola con i suoi personaggi, si diverte e si scalda con loro, poi a un tratto la musica trattiene il suo passo su una medesima armonia e l'autore sembra appartarsi a contemplare le sue creature, come avvertisse l'inutilità di tutto quell'indaffararsi e intrigare."

L'opera è del 1786, Mozart ha appena avuto il terzo figlio e tra tre anni scoppierà la Rivoluzione francese. Nei serrati qattro atti si mettono in scena le vicende amorose, strettamente intrecciate, di varie coppie appartenenti a diverse classi sociali. C'è un bel libro di Massimo Mila, che non ho ancora avuto la ventura di leggere (e forse questa potrebbe essere l'occasione giusta...) che si intitola Lettura delle Nozze di Figaro. Mozart e la ricerca della felicità. La ricerca della felicità, dunque, sarebbe il senso ultimo di questa opera mozartiana, che abdica alle rivendicazioni sociali del testo di Beaumarchais da cui è tratta, per parlarci di un qualcosa di più immediato e comprensibile, qualcosa a cui tutti aspiriamo. E chissà che ascoltarla non ci renda un passo più vicini al raggiungerla...

venerdì 8 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.5 op.67

Soprannominata Sinfonia del Destino, la Quinta è la sinfonia di Beethoven che tutti conoscono, almeno in quelle 4 note di attacco (sol-sol-sol-mi) che esplodono come una cannonata e si ripropongono poi per tutto il primo movimento, scariche di adrenalina in dosi differenziate.

Pestelli dice giustamente che ascoltare la Quinta "è un po' come mettersi un leone in casa" e in effetti non è un ascolto da cui si possa uscire indenni. In quattro anni di gestazione, dal 1804 al 1808, nel centro della sua produzione, Beethoven ci ha regalato anche questo. E non è un caso che l'attacco di questa Sinfonia fosse la "sigla" delle trasmissioni di Radio Londra durante la seconda guerra mondiale.

Ascolto anche qui, come per la Nona, la versione di Arturo Toscanini alla testa della NBC Symphony Orchestra, registrata il 22 marzo 1952 alla Carnegie Hall. Deve esere una registrazione live perchè alla fine del primo tempo si sente qualche fruscio e qualche timido movimento sulle poltrone; si avverte però anche lo stato di letterale paralisi in cui Toscanini ha scaraventato il pubblico, con la sua direzione da dittatore musicale. Lui sì, un domatore di leoni.

giovedì 7 gennaio 2010

Franz Schubert,
Quintetto per archi D.956

Pestelli dice a proposito di Schubert e di questo quintetto che "per tenere compagnia ci vuole qualcuno che non ci incalzi troppo da vicino, vociferando di una meta lontana; meglio qualcuno che ami il mondo così com'è e che non voglia andare da nessuna parte; e non perchè trovi tutto bello, ma perchè sa che per stare meglio è inutile andare in qualunque altro posto." Non so se Schubert non volesse andare da nessuna altra parte e amasse il mondo così com'era. Di certo la sua breve vita - morì a 31 anni - non fu nè facile, nè tranquilla, oberata da problemi economici e di salute. Si concluse senza clamore nel 1828, quando una febbre tifoidea contratta durante il viaggio compiuto fino ad Eisenstadt, per visitare - che fatalità! - la tomba di Haydn, lo uccise.

Ogni volta che penso a Schubert mi vengono i mente i suoi occhialetti tondi, quelli con cui è rappresentato nei pochi ritratti che ci sono rimasti; mi vengono in mente le serate piene di musica nei salotti borghesi di Vienna, in cui dava il meglio di se stesso dimenticando le difficoltà quotidiane. Ascoltando questo quintetto nell'incisione del Borodin Quartet con Misha Milman al secondo violoncello (non eccezionale, devo dire, con qualche sbavatura e poco sale; peccato perchè il Borodin in genere è eccellente) mi invade una sommessa malinconia, che è il colore di tante sue opere.

Mentre Schubert componeva questo brano nel 1828, pochi mesi prima di morire, Giacomo Leopardi era a Pisa e componeva A Silvia, il canto della giovinezza perduta (mai vissuta?), del rimpianto di ciò che si è desiderato e sognato e che non è mai arrivato, il canto della disillusione dell'età matura di fronte all'ignara confidenza della giovinezza. Tra questi due grandi, vissuti negli stessi anni, ci sono tante affinità: morti giovani entrambi, una vita travagliata ma portata avanti con scrificio e dignità, una malinconia che non è resa agli eventi ma lucido e amorevole sguardo alla vita. Nell'immagine della mano operosa di Silvia che lavora al telaio accompagnata dal suo canto giovanile penso ci sia molto del senso di questo quintetto schubertiano.

"Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno."

P.S. Il sito della Biblioteca Nazionale di Napoli ha messo on line il manoscritto di A Silvia: nella barra a sinistra trovate le diverse carte, anche in versione ad alta risoluzione. Godetevi la calligrafia del nostro poeta: è poesia anche quella...

mercoledì 6 gennaio 2010

Johann Sebastian Bach,
Concerti per uno e due violini
BWV 1041-1042-1043

Se pensiamo a Johann Sebastian Bach (il mio amatissimo Bach! finalmente è arrivato tra i capolavori di Pestelli...) ce lo immaginiamo con la sua bianca parruccona ricciolosa, solennemente intento a suonare possentemente l'organo. E in effetti le tastiere, organo, clavicembalo e clavicordo furono i suoi strumenti d'elezione ma fu il violino a procurargli il primo impiego nell'orchestra di corte a Weimar nel 1703 e più avanti nel 1708. Bach suonava magistralmente violino e viola: durante il lungo viaggio verso Lubecca, intrapreso a piedi nel 1705 per andare a sentire Buxtehude - un organista, guardacaso - fu proprio il violino, suonato nelle locande, a fargli sbarcare il lunario. Insomma, se l'organo era lo strumento del cuore il violino era quello del portafogli - e il divino ci permetta l'irriverenza...

Nel 1717, anno in cui questi concerti sono composti, Bach si licenzia burrascosamente dal duca di Weimar (che prova anche ad arrestarlo per non farlo andare via; ma si trattò di puntiglio e non di amore per la musica) e passa al servizio di Leopold von Köthen: anche qui è il violino a dargli lavoro e libertà e questi tre sono tra i pochi superstiti dei numerosi concerti che Bach scrisse per la corte di Köthen, dove Leopold stipendiava ottimi solisti.

Pestelli dice che nel BWV 1043, Bach "dimentica il suo duca o principe, gli obblighi e i contratti di prestazione, e si perde (o si trova) nell'insguire solo la sua immensa fantasia." Io trovo che Bach segua sempre la sua fantasia o meglio la sua idea genialmente sistematica. La sua statura artistica e morale è sempre così al di sopra di tutto ciò che lo circonda, che sembra sempre camminare e pensare a due metri da terra e non essere toccato dalle beghe e dai limiti che il suo tempo e la sua condizione gli propongono.

All'epoca di Bach era prassi didattica trascrivere i concerti dei musicisti che andavano per la maggiore, per impararne i segreti e il nostro copiò diligentemente kilometri e kilometri di musica italiana, l'amatissimo Vivaldi, Corelli, Albinoni, Marcello compiendo così virtualmente quel viaggio in Italia che non ebbe mai l'occasione di fare. Quanto di italiano suona in questi concerti: energia, misura, irruenza, senso del canto e della melodia. E al tempo stesso quanto di tedesco: struttura, sviluppo sistematico, quadratura ed equilibrio della strumentazione.

Ho ascoltato e riascoltato forse per centinaia di volte questi concerti da ragazzina, durante gli anni di Conservatorio, sdraiata su un tappeto, da un vecchio LP in cui il solista era Isaac Stern, se non sbaglio. Quella posizione inconsueta mi permetteva di sentire quanto questa musica si apra e si espanda in tutte le direzioni, come un disegno di Escher.

Ascolto ora la versione di Anne-Sophie Mutter con la English Chamber Orchestra diretta da Salvatore Accardo. Ma come spesso mi accade per Bach, mi dimentico di ascoltare i suoni e vedo solo l'idea che è dentro questa musica: un'ideale di armonia cosmica in cui ogni cosa è al suo posto e dove il movimento coincide con una superiore immobilità, come quel Motore immobile di cui parlava Aristotele.

lunedì 4 gennaio 2010

Béla Bartok,
Concerto n.3 per pf. e orchestra Sz119

Sono d'accordo con Pestelli che la musica del Novecento, anche quello cosiddetto storico, faccia paura a molti ma è vero che questo concerto "non deve far paura a nessuno, è un'opera che parla a tutti direttamente, come sanno fare Schumann o Chopin; e tuttavia è musica del nostro tempo, segnata dalle sue crisi, dalle sue aspirazioni e dalle sue tare, ma riscattate in una luce di bellezza superiore a qualunque imitazione."

1945. Bartok si è rifugiato negli Stati Uniti per scampare alla seconda guerra mondiale che distrugge la sua patria, l'Ungheria, e l'Europa. Un senso di estraneità lo pervade, la nostalgia forse, la disperazione del futuro. Mentre fuori la guerra sconvolge il mondo (e il '45 è il fatidico anno dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki), la leucemia lo corrode dall'interno. Accanto a sè la moglie, Ditta Pasztory, un'ottima pianista anche lei; resterà sola presto, tra pochi mesi. Bartok scrive questo concerto per lei, perchè possa consolarsi suonandolo quando lui non ci sarà più; e lo riempie di gioia e di bellezza, di energia e di tenerezza, attingendo a tutti i suoi sentimenti. Ecco perchè questo brano parla così chiaramente anche a noi, come dice Pestelli. Io lo immagino come un'ultima lettera d'amore, a Ditta sì, certo, ma anche a noi, che la leggiamo a decenni di distanza e siamo invitati a riflettere su senso (e sul non-senso) delle cose.

Ascolto la versione di Andras Schiff, diretto da Ivan Fisher con la Budapest Festival Orchestra, probabilmente un'incisione del 1996. Elegante, decisa, fermamente energica nel primo e nel terzo movimento ma anche delicatamente e malinconicamente dolce nel secondo, per cui è indicato Adagio religioso. Strano l'invito alla preghiera da parte di un musicista laico, particolarmente laico. O forse no...

Franz Joseph Haydn,
La creazione

Avevo ascoltato questo oratorio tanti anni fa a Santa Cecilia, si era ancora all'Auditorio Pio, e ne avevo un ricordo ormai nebuloso ma ricco di gioia e di stupore. Ieri ho scartabellato tra i vecchi programmi di sala che conservo nei meandri della mia libreria e, praticamente al primo colpo, impolverato ma decisamente intatto, ho trovato il fascicoletto, con la data del concerto (29 marzo 1998!) e un bel saggio di Bruno Cagli che mi sono goduta come lettura della buonanotte.

Vienna 1798 è la data della prima esecuzione, quasi al centro esatto tra il fatidico 1790, anno in cui Haydn, ormai famosissimo, lascia i suoi protettori Esterhazy e si dedica alla musica da libero professionista e il 1809, anno della sua morte. Venti di tempesta agitano l'Europa: la Rivoluzione francese inizia nel 1789 e a seguire la folgorante parabola napoleonica che sconquassa il continente per ripiegarsi poi bruscamente nel congresso di Vienna (ancora Vienna!) del 1814. In tutto questo, un musicista ormai anziano - perchè nel Settecento a 58 anni si era anziani - e all'apice della sua fama al punto che può permettersi di comporre ciò che vuole, si immerge in uno dei misteri che avvolgono l'umanità, la creazione, e si sforza di farne una musica che resti per sempre, così come il suo soggetto. E in questo lungo sforzo creativo trova e comunica gioia e stupore, fiducia e reverenza.

Dice bene Pestelli: "Haydn è il vero cantore dell'illuminismo religioso rappresentato dalla poesia di Klopstock: dimenticato è il dramma luterano del peccato originale e della corruzione; Dio è buono non perchè è misericordioso, ma perchè ha posto l'uomo al centro dell'universo, esaltandolo proprio nel suo essere creatura." Conciliare i due opposti, illuminismo e religione, è qualcosa che può riuscire solo ai grandi (Manzoni?) e Haydn ci riesce: lo stupore con cui dipinge di suoni i sei giorni della creazione, l'apparire della luce dal buio caos, il materializzarsi di piante e animali e infine l'apparire dell'uomo nel suo essere maschio e femmina, Adamo ed Eva, non sono in contrasto con la fiducia in un luminoso futuro il cui accento non è posto sulla sofferenza ma sulla gioia. Quella gioia che lui stesso provava nella preghiera, come confida in una lettera (forse?, è nel saggio di Cagli):

"Ho pregato Dio non come un povero peccatore disperato, ma con calma e sommessamente. Io sento che un Dio eterno avrebbe sicuramente pietà delle sue creature mortali, e perdonerebbe alla polvere di essere polvere. Questi pensieri mi hanno rassicurato. Ho provato una gioia sincera e una grande fiducia; volendo esprimere il contenuto della preghiera non ho potuto soffocare la gioia, ma ho lasciato sfogare i miei sentimenti di felicità e sul Miserere ho indicato Allegro."

Ascolto la stessa edizione commentata da Pestelli, Bernstein dirige Orchestra e Coro della Bayerischen Rundfunk, un'incisione del 1987, acquistata stamattina da Feltrinelli, affrontando la pioggerella sottile che bagna Roma e che forse appena fuori del raccordo è già neve. Bizzarra e grandiosa colonna sonora, La Creazione mi accompagnerà oggi, diffondendosi persistente tra le stanze della mia casa.

P.S. Un consiglio di ascolto: se avete poco tempo, ascoltate solo le parti corali (e naturalmente il caos iniziale). Resterete stupiti della loro modernità. E se volete seguire il testo, provate a scaricare la partitura da questo link di International Music Score Library Project(IMSLP). In questa pagina ci sono anche i download del manoscritto.

domenica 3 gennaio 2010

Fryderyk Chopin,
Andante spianato e Grande polacca brillante op.22

Primo brano mancante nella mia discoteca casalinga (chissà come mai...). Mi rivolgo con fiducia ad I-Tunes, certa di trovarvi più edizioni e di cavarmela con pochi euro. In effetti ci sono più di una decina di pianisti che si cimentano con il celeberrimo brano: dai mostri sacri Rubinstein e Argerich a più giovani pianisti come Lortie e Biret. Vi insegno un trucco, scoperto a mie spese oggi: quando cercate un brano che, come questo è suddiviso in due track, quei furboni di I-Tunes cercano di metterne uno a pagamento a 99 centesimi e l'altro in omaggio all'album che li contiene, in modo che per completare l'ascolto dovrete spendere 10 euro o più. Vi consiglio di ordinare in ordine alfabetico per interprete la lista che vi offre il motore di ricerca, di verificare bene cosa è a pagamento e cosa in "omaggio" e di scegliere i due brani facendo attenzione che appartengano allo stesso CD (non è superflua questa raccomandazione, potrebbero pubblicare un simpatico "spezzato", sì proprio come i tailleur, con un brano da un'incisione e l'altro da un'altra).

Bene, detto questo, vediamo che cosa sono riuscita a portare a casa con 5 euro: l'Andante di Marta Argerich, Andante e Polacca (ma da due incisioni diverse) di Rubinstein e, finalmente, Andante e Polacca di Louis Lortie da una stessa incisione. A proposito di Lortie, vi segnalo il suo sito (http://www.louislortie.com/): ci sono sezioni dedicate ad alcuni compositori con interessantissimi video che propongono osservazioni su interpretazione e tecnica. Inutile dire che il primo è Chopin (per altro in buona compagnia tra Beethoven, Wagner/Liszt, Mozart, Ravel e Bach).

Per questo brano così intimo e raffinato ho tentato un ascolto estremo: in autobus, cuffie dell'I-Pod nelle orecchie, andando verso il centro in una giornata di mezzo sole. L'effetto è stato incredibile e ha agito sullo spazio e sul tempo, funzionando come una lente d'ingrandimento e un rallentatore e costringendomi a soffermarmi su tutti i particolari dei volti delle persone che erano con me nella vettura, a coglierne l'elasticità dei movimenti, la bellezza, l'armonia. Un'emozione che vi suggerisco di tentare.

Ma veniamo alle incisioni. Se Lortie ti guida attraverso i fruscii di seta e broccato di un elegante salotto parigino, di quelli di vecchia nobiltà in cui la raffinatezza è parte integrante dell'ambiente e non deve essere nè cercata nè ostentata, Rubinstein ti fa entrare in una cattedrale gotica cattolica, con quel tanto di dramma interiore che non travalica i limiti del pudore ma sta per farlo. Non saprei dire se una mi piace più dell'altra (a parte il fatto che le due incisioni diverse non rendono giustizia al genio di Rubinstein e forse non è il modo migliore di ascoltare quello che lui ha da dire riguardo a questo pezzo): come spesso capita per i classici, ogni interprete te ne comunica una possibile lettura e in fondo moltiplica il piacere dell'ascolto.

Pestelli dice che questo brano "non è solo un ritratto di Chopin, è un ritratto del pianista romantico in assoluto, capace di portarsi dietro una folla con la pressione di un accento, l'attesa di un rubato, la grazia di un fraseggio." Condivido. E mi percorre un brivido pensando che la Nona è di meno di dieci anni precedente e che pochi mesi dopo l'unica esecuzione pubblica di questo brano fatta da Chopin , Vincenzo Bellini sarebbe morto e con lui forse tutta un'epoca di "belcanto", di cui questo brano chopiniano è, in tanti momenti, una tra le più riuscite traduzioni pianistiche.

P.S. Ancora una suggestione, questa volta cinematografica. Chi ha visto quel capolavoro che è Il Pianista di Roman Polanski, Palma d'Oro a Cannes 2002, ricorderà che questa è una delle musiche che il protagonista suona alla fine del film, finito l'orrore della guerra. Senza ulteriori parole.

sabato 2 gennaio 2010

Gioachino Rossini,
Il Barbiere di Siviglia

Un patio di Siviglia, che invita a fare una pausa in compagnia.

Quest'opera è una ragazzina di 194 anni. I migliori critici ne sono stati i miei giovani alunni di una classe di qualche anno fa, era il 2004: sentirli canticchiare i motivi dell'Overture o di alcune delle arie ascoltate insieme, mentre correvano ad avventarsi sui panini della ricreazione, è stata una delle migliori soddisfazioni della mia carriera di insegnante. Tenerli sulle spine riguardo alla fine della storia, che avevano bevuto lezione dopo lezione come una appassionante telenovela, è stata invece una piccola cattiveria da adulta.

D'altronde è proprio vero quello che dice Pestelli: quest'opera è pervasa da "un'allegria biologica tanto intensa da divenire affermazione (morale?) di fiducia nella vita." L'allegria e la vitalità di cui fu pieno un viaggio in Andalusia del dicembre 2006, condiviso con una carissima amica. Ascoltata per ore e ore sulle strade ampie e scorrevolissime che legano Malaga a Granada, Granada a Cordova, Cordova a Siviglia, finalmente, fu la nostra burlesca colonna sonora. Alberi di arance carichi di frutti maturi per le strade, patii colorati e pieni di fiori, l'Alcazar solenne e magnifico, la Giralda vertiginosa e le sue campane, sulle note di Rossini sembravano strizzarci l'occhio.

L'edizione che sto ascoltando è quella diretta da Alceo Galliera nel 1958 alla testa della Philarmonia Orchestra, la Callas come Rosina, Luigi Alvas come Conte di Almaviva e Tito Gobbi come Figaro. Il CD è un po' rovinato e ho dovuto metterlo nel computer per ascoltarlo senza gli orribili fruscii, pernacchi e rantoli che si erano presentati come ospiti sgraditi alla festa - a proposito, forse se ho davvero intenzione di portare a termine questa impresa, dovrei mettere in cantiere l'acquisto di un impianto stereo nuovo e degno...

Ma nulla davvero riesce a scalfire l'inossidabile energia di questa musica, nemmeno le irriverenze della tecnologia del XXI secolo.

venerdì 1 gennaio 2010

Ludwig van Beethoven,
Sinfonia n.9 op.125 "Corale"

Beethoven ha la capacità di semplificarmi la vita. Quando ascolto la sua musica (che è veramente quasi tutta Musica, con rarissime eccezioni del tutto marginali) ogni pensiero e sentimento torna ad occupare il suo posto: le battaglie interiori, le ansie e i tormenti, che sono dialetticamente rappresentate nelle sue composizioni, trovano un senso e, pur non annullandosi, si compongono in un tessuto comprensibile. Beethoven trasforma il caos in cosmo senza addomesticarlo, senza nulla togliergli della sua intensa e terribile grandiosità.

Pestelli dice della Nona che "anche chi non l'ha mai ascoltata a grandezza naturale sa che esiste." Tagliuzzata al cinema o in pubblicità, usata come inno dell'Unione Europea non riesce perdere la sua incredibile Bellezza e ti colpisce come uno schiaffo ogni volta che l'ascolti. Ricordo l'esaltazione del primo ascolto dal vivo, Santa Cecilia all'Auditorio Pio, 1994? 1995?, una poltrona quasi in prima fila, fin troppo vicina, completamente investita dal volume sonoro grandioso e immenso dell'orchestra e del coro, forse Thielemann sul podio, non ricordo più.

Ascolto adesso un CD comprato alcuni anni fa, una rimasterizzazione dell'incisione di Toscanini del 1 aprile 1952 alla Carnegie Hall di New York. E' un'incisione asciutta e scabra, senza compiacimenti, quasi stridente in certi usi delle percussioni e dei fiati. Mi piace. Mi dice che la grandezza è anche ruvida e aspra, senza mezzi termini in quello che ha da dire.

Quando Beethoven compose questa Sinfonia era ormai del tutto sordo. Al punto che, più che realmente dirigerla, seguì la prima guardando i professori d'orchestra seduto sul palco accanto ad Ignaz Umlauf. Fu lui a far dolcemente voltare Beethoven per "vedere" l'applauso che lo acclamava. Questo gesto pietoso e di rispettoso affetto mi commuove ogni volta che lo penso e che lo vedo con gli occhi dell'immaginazione.