lunedì 4 gennaio 2010

Béla Bartok,
Concerto n.3 per pf. e orchestra Sz119

Sono d'accordo con Pestelli che la musica del Novecento, anche quello cosiddetto storico, faccia paura a molti ma è vero che questo concerto "non deve far paura a nessuno, è un'opera che parla a tutti direttamente, come sanno fare Schumann o Chopin; e tuttavia è musica del nostro tempo, segnata dalle sue crisi, dalle sue aspirazioni e dalle sue tare, ma riscattate in una luce di bellezza superiore a qualunque imitazione."

1945. Bartok si è rifugiato negli Stati Uniti per scampare alla seconda guerra mondiale che distrugge la sua patria, l'Ungheria, e l'Europa. Un senso di estraneità lo pervade, la nostalgia forse, la disperazione del futuro. Mentre fuori la guerra sconvolge il mondo (e il '45 è il fatidico anno dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki), la leucemia lo corrode dall'interno. Accanto a sè la moglie, Ditta Pasztory, un'ottima pianista anche lei; resterà sola presto, tra pochi mesi. Bartok scrive questo concerto per lei, perchè possa consolarsi suonandolo quando lui non ci sarà più; e lo riempie di gioia e di bellezza, di energia e di tenerezza, attingendo a tutti i suoi sentimenti. Ecco perchè questo brano parla così chiaramente anche a noi, come dice Pestelli. Io lo immagino come un'ultima lettera d'amore, a Ditta sì, certo, ma anche a noi, che la leggiamo a decenni di distanza e siamo invitati a riflettere su senso (e sul non-senso) delle cose.

Ascolto la versione di Andras Schiff, diretto da Ivan Fisher con la Budapest Festival Orchestra, probabilmente un'incisione del 1996. Elegante, decisa, fermamente energica nel primo e nel terzo movimento ma anche delicatamente e malinconicamente dolce nel secondo, per cui è indicato Adagio religioso. Strano l'invito alla preghiera da parte di un musicista laico, particolarmente laico. O forse no...

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