giovedì 7 gennaio 2010

Franz Schubert,
Quintetto per archi D.956

Pestelli dice a proposito di Schubert e di questo quintetto che "per tenere compagnia ci vuole qualcuno che non ci incalzi troppo da vicino, vociferando di una meta lontana; meglio qualcuno che ami il mondo così com'è e che non voglia andare da nessuna parte; e non perchè trovi tutto bello, ma perchè sa che per stare meglio è inutile andare in qualunque altro posto." Non so se Schubert non volesse andare da nessuna altra parte e amasse il mondo così com'era. Di certo la sua breve vita - morì a 31 anni - non fu nè facile, nè tranquilla, oberata da problemi economici e di salute. Si concluse senza clamore nel 1828, quando una febbre tifoidea contratta durante il viaggio compiuto fino ad Eisenstadt, per visitare - che fatalità! - la tomba di Haydn, lo uccise.

Ogni volta che penso a Schubert mi vengono i mente i suoi occhialetti tondi, quelli con cui è rappresentato nei pochi ritratti che ci sono rimasti; mi vengono in mente le serate piene di musica nei salotti borghesi di Vienna, in cui dava il meglio di se stesso dimenticando le difficoltà quotidiane. Ascoltando questo quintetto nell'incisione del Borodin Quartet con Misha Milman al secondo violoncello (non eccezionale, devo dire, con qualche sbavatura e poco sale; peccato perchè il Borodin in genere è eccellente) mi invade una sommessa malinconia, che è il colore di tante sue opere.

Mentre Schubert componeva questo brano nel 1828, pochi mesi prima di morire, Giacomo Leopardi era a Pisa e componeva A Silvia, il canto della giovinezza perduta (mai vissuta?), del rimpianto di ciò che si è desiderato e sognato e che non è mai arrivato, il canto della disillusione dell'età matura di fronte all'ignara confidenza della giovinezza. Tra questi due grandi, vissuti negli stessi anni, ci sono tante affinità: morti giovani entrambi, una vita travagliata ma portata avanti con scrificio e dignità, una malinconia che non è resa agli eventi ma lucido e amorevole sguardo alla vita. Nell'immagine della mano operosa di Silvia che lavora al telaio accompagnata dal suo canto giovanile penso ci sia molto del senso di questo quintetto schubertiano.

"Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno."

P.S. Il sito della Biblioteca Nazionale di Napoli ha messo on line il manoscritto di A Silvia: nella barra a sinistra trovate le diverse carte, anche in versione ad alta risoluzione. Godetevi la calligrafia del nostro poeta: è poesia anche quella...

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