venerdì 16 settembre 2011
Italia senza orecchie
Ho affisso sulla mia bacheca personale (una bacheca vera, appesa con un vero chiodo al vero muro di fronte alla mia vera scrivania) l'articolo di Quirino Principe pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore di domenica scorsa. Il titolo, significativo e tristemente evocativo, è Quest'Italia non ha più orecchio; il contenuto è una requisitoria appassionata e circostanziata su ciò che stiamo lentamente e inesorabilmente perdendo, la nostra tradizione musicale ovvero una consistente parte delle nostre radici storiche. Tanto per ricordarmi il senso e il fine del mio lavoro di musicologa, paziente restauratrice di un mosaico che perde tessere, in corsa contro il tempo perchè il disegno resti visibile.
giovedì 27 gennaio 2011
All'opera
Bolcom, A view from the bridge, ultima rappresentazione romana. Vado da sola portando due pre-giudizi contrastanti: quello di un'amica americana che adora quest'opera e quello di un collega critico che l'ha giudicata deboluccia.
A me è piaciuta. Devo dire che ho trascorso le oltre due ore nella poltroncina rossa del Costanzi senza chiedermi quando sarebbe finita e godendomi le scenografie e lo svolgersi del dramma, ambientato nella comunità italiana di Brooklyn, negli anni Cinquanta o giù di lì.
Forse della musica non ti rimane molto, se non quell'incombere degli ostinati al basso, quel mood cupo e angoscioso.
I pensieri correvano in libertà. Perchè quell'America degli anni Cinquanta, in cui immigrati italiani sfidavano la clandestinità per mandare a casa i soldi che avrebbero permesso alle famiglie di sopravvivere, è l'Italia di oggi. La vita che Bolcom ha messo in musica, raccontata da Miller, scorre sotto i nostri occhi, se solo sappiamo vederla spingendo lo sguardo poco oltre la superficie.
A me è piaciuta. Devo dire che ho trascorso le oltre due ore nella poltroncina rossa del Costanzi senza chiedermi quando sarebbe finita e godendomi le scenografie e lo svolgersi del dramma, ambientato nella comunità italiana di Brooklyn, negli anni Cinquanta o giù di lì.
Forse della musica non ti rimane molto, se non quell'incombere degli ostinati al basso, quel mood cupo e angoscioso.
I pensieri correvano in libertà. Perchè quell'America degli anni Cinquanta, in cui immigrati italiani sfidavano la clandestinità per mandare a casa i soldi che avrebbero permesso alle famiglie di sopravvivere, è l'Italia di oggi. La vita che Bolcom ha messo in musica, raccontata da Miller, scorre sotto i nostri occhi, se solo sappiamo vederla spingendo lo sguardo poco oltre la superficie.
lunedì 24 gennaio 2011
Dopo lunga assenza...
Dopo lunga assenza torno alle note su questo blog. L'impresa che mi ero proposta lo scorso anno (completare l'ascolto di tutti Gli immortali pestelliani) non è stata compiuta ma il gioco mi ha regalato comunque tanta bella musica e tanti buoni pensieri.
Quest'anno le regole cambiano. Non più record da raggiungere ma post sulla musica che ascolto, che penso, su cui rifletto, in cui mi imbatto. Con molte note a margine...
Domenica pomeriggio. Torno dopo anni in uno dei luoghi che è stato il contenitore della musica per eccellenza a Roma. Ero curiosa di vedere come fosse diventato e ho tentato la sorte nonostante il programma fosse rischioso: Bach e Haendel, il repertorio più classico e più ascoltato dalle mani dei maestri sommi, quello che si suona se si è dei geni o dei pazzi. Non erano dei geni.
La platea era gremita e il pubblico, che si sciroppava qulla zuppa, era suppongo lo stesso di dieci anni fa. Solo con dieci anni di più. Nel controluce della sala, dal mio posto sul mezzanino vedevo solo fragili capigliature candide o teneramente tinte, cotonate e morbide, sistemate con cura per il concerto della domenica. Chissà quante di quelle teste avevano ancora orecchie valide...
L'immagine dell'abitudine, della vita che scorre sempre uguale a se stessa. I concerti belli adesso li fanno da un'altra parte ma loro continuano ad andare lì, come un tram sul suo binario, come il pendolo che batte le ore, come il vecchio cane che fa la sua passeggiata. Come l'Italia, che non si ribella, non si indigna, non si scuote e non si alza in piedi.
Sono andata via prima della fine.
Quest'anno le regole cambiano. Non più record da raggiungere ma post sulla musica che ascolto, che penso, su cui rifletto, in cui mi imbatto. Con molte note a margine...
Domenica pomeriggio. Torno dopo anni in uno dei luoghi che è stato il contenitore della musica per eccellenza a Roma. Ero curiosa di vedere come fosse diventato e ho tentato la sorte nonostante il programma fosse rischioso: Bach e Haendel, il repertorio più classico e più ascoltato dalle mani dei maestri sommi, quello che si suona se si è dei geni o dei pazzi. Non erano dei geni.
La platea era gremita e il pubblico, che si sciroppava qulla zuppa, era suppongo lo stesso di dieci anni fa. Solo con dieci anni di più. Nel controluce della sala, dal mio posto sul mezzanino vedevo solo fragili capigliature candide o teneramente tinte, cotonate e morbide, sistemate con cura per il concerto della domenica. Chissà quante di quelle teste avevano ancora orecchie valide...
L'immagine dell'abitudine, della vita che scorre sempre uguale a se stessa. I concerti belli adesso li fanno da un'altra parte ma loro continuano ad andare lì, come un tram sul suo binario, come il pendolo che batte le ore, come il vecchio cane che fa la sua passeggiata. Come l'Italia, che non si ribella, non si indigna, non si scuote e non si alza in piedi.
Sono andata via prima della fine.
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